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“Gessetti colorati”, la voce che ho scritto per il Dizionario #Antifa

Con molto piacere ho collaborato alla iniziativa del “Dizionario #Antifa” promossa e coordinata da Stefano Catone, contribuendo con una “voce” (quella sui “gessetti colorati”, che trovate qui sotto). Tra chi ha contribuito alle diverse “voci” trovate, tra gli altri: Elly Schlein, Cecilia Strada, Pippo Civati, Massimo Mazza…

Credo anche io, come scrive nella sua introduzione Ilaria Bonaccorsi, che questo sia un vocabolario “antidoto” a un veleno o ai tanti veleni: il fascismo, il razzismo, il sessismo, la violenza tout court… E Bonaccorsi continua, ancora, in un passaggio che ben spiega il progetto: “L’idea di un vocabolario mi è piaciuta da subito. Immagino a fatica mia figlia sfogliarlo, ma lo immagino, lo desidero certamente. Lo immagino per lei che ha bisogno di imparare molte cose e lo immagino per chi ha ancora la forza o la fiducia di darsi del tempo per ricercare il giusto mezzo e il giusto senso. Ecco, poi metteteci anche che questo più che un vocabolario tradizionale in cui viene indicato il significato letterale delle parole, è semmai un vocabolario alla ricerca di un senso perduto. Il buon senso. Quello buono”.

Cerchiamo di ritrovarlo, insieme.

GESSETTI COLORATI

Gessetti colorati”, sicuramente. Ma anche le “manine bianche” del “popolo arcobaleno” fatto da quelli che “combattono i terroristi con gli abbracci e i peace and love”. Per arrivare infine anche ai più offensivi “paci-finti” e “paci-tonti”. Tutte invettive e insulti che sono sempre più spesso sulla bocca (o nei tweet) di attivisti e politici di una certa estrazione (dal razzismo al para-fascismo, dal populismo becero ad una destra muscolare e machista sempre pronta ad inneggiare alla guerra ed alle armi…). Ma quali sono i motivi di una dinamica di questo tipo? A cosa punta una campagna di denigrazione che si diffonde poco alla volta più per divenire “senso comune” e dato quasi acquisito che per sviluppare attacchi diretti verso le persone e le organizzazioni che si occupano di pace, disarmo, nonviolenza?

L’obiettivo primario è probabilmente quello di un lento ma inesorabile tentativo di sminuire le proposte (politiche e sociali) di quell’area ed anche, in un certo senso, per mettersi al riparo da critiche e da problemi di coscienza. Perché se la considerazione diffusa e comune non ritiene in alcun modo fattibile una strada condivisa, non aggressiva, non armata alla sicurezza e alla costruzione della pace allora chi propone e propaganda quella armata, violenta, ristretta (negli orizzonti e nelle applicazioni, perché alla fine sarà una situazione sicura solo per una minoranza) che si nutre di divisione, odio e razzismo diventa “l’unica”possibile. E non diventa problematico sostenerla e porsi (con una scelta, criticabile e delicata) in quel determinato campo, perché è una mera necessità automatica.

Cosicché possono intestarsi la ricerca della pace, anche se gli strumenti che vengono proposti sono di segno completamente diverso. “Chi non vuole la pace? Tutti la desiderano, quindi non può essere un tema solo di pochi” è quanto viene ripetuto stancamente da molti. Forse è giunto il momento di esplicitare che c’è davvero qualcuno che “non la vuole” e questo qualcuno è chi prepara la guerra. La confusione maggiore deriva dal considerare come pace un anelito generico a quella che forse va definita piuttosto come “tranquillità” e mantenimento di uno status quo, apprezzato soprattutto da chi ne trae convenienza e potere. Tutti vogliono stare bene, sicuri e tranquilli… ma se questa ricerca ed obiettivo si limita fin dal principio ad ottenere queste cose solo per i propri “cari o vicini” si sta già sbagliando in partenza. Si sta cercando qualcosa che non può essere pace, che necessità di una costruzione concreta fatta di scelte condivise non solo di un generico desiderio. Da questo approccio e dagli strumenti messi in campo è possibile riconoscere chi la pace la vuole davvero, e chi no. Chi intende passare dalle parole ai fatti e chi invece annacquare tutto (partendo, come detto, dalla denigrazione e sottovalutazione dell’area pacifista e nonviolenta).

L’azione di sberleffo, se la collochiamo nell’ottica appena tratteggiata, deve dunque alzare il proprio tono in maniera direttamente proporzionale alla concretezza delle proposte dei gruppi pacifisti. Se tutti dobbiamo stare “nello stesso brodo” indistinto e che permette dunque di fare scelte con poca coscienza sono in particolare quelli più operativi, determinati, efficaci nelle proposte e nella creazione di consenso a dover essere attaccati.

Proprio perché i movimenti e gruppi così tanto denigrati – con i termini che abbiamo visto prima – in realtà hanno davvero messo in campo negli ultimi anni delle proposte concrete e fattibili. Sono ormai mature e anche sperimentate (nello stesso quadro politico italiano, i pensi ai “Corpi Civili di Pace” sperimentali decisi nella XVII Legislatura) delle prospettive di lavoro che si possono mettere davvero in gioco e che sono, anzi, più “misurabili” e percorribili di altre che devono continuamente scomodare il vecchio e rimasticato luogo comune romano romani del “si vis pacem para bellum”. Un adagio che viene anch’esso propagandato come “verità assodata” e quasi banale, mentre invece la storia domostra come preparare la guerra porti ineluttabilmente alla guerra stessa.

Al contrario potrebbero essere molto più efficaci le proposte più avanzate del movimento pacifista, che partono da una da una definizione “positiva” di pace (intuizione già di molti padri della nonviolenza e del pacifismo, scientificamente poi introdotta da Johann Galtung e sviluppata corposamente con numerosi studi) vista come pienezza di diritti. Una pace da costruire su pilastri fondamentali ben individuabili e realistici sui quali si può lavorare con progetti e programmi politici e dei quali aspetto fondamentale, si può valutare evoluzione e realizzazione. E’ una strada già intrapresa da molti istituti di ricerca internazionali (penso in particolare all’Institute for Economics and Peace di Sydney) e ora inserita a pieno titolo anche nelle progettualità a livello di Nazioni Unite con il percorso dei Sustainable Development Goals (in particolare con l’obiettivo 16).

Se si riesce a cogliere tutta questa ricchezza di pensiero e di concrete piste di lavoro la prospettiva del “sentire comune” viene integralmente ribaltata e si comprende facilmente come gli ideologici e generici (probabilmente perché, come detto, l’obiettivo non è una vera pace ma solo procrastinare uno status quo di privilegio o una rabbia e scontro sociale/culturale utile a mantenere un certo consenso) siano coloro che pensano ancora di fondare e costruire pace e democrazia sulle armi e sugli eserciti.

Con tutto questo in mente il riferimento ad un arcobaleno multicolore diviene meno naif e banalizzante, perché porta invece direttamente a quella “convivialità delle differenze” (geniale definizione di Pace coniata da don Tonino Bello) unico mezzo davvero efficace per poter realizzare partecipazione, democrazia e pace non solo nel senso formale e classico del concetto, ma con pieno raggiungimento di inclusione e diffusione dei diritti.

Per i quali anche momenti di esplicitazione e celebrazione a parole, o con disegni fatti da gessetti colorati, sono importanti perché segnano il percorso e tolgono alibi e fraintendimenti. E forse proprio per questo motivo sono segni che qualcuno vuole cancellare…

 


Da Buonista a Risorse Boldriniane, passando per Invasione, Lobby Gay e Complotto. Un piccolo manuale di sopravvivenza alla neolingua destrorsa e fascistoide che accompagna le nostre letture quotidiane.

Questo è #Antifa, un dizionario antifascista, antifake e antifanatismo.

Un libro che contiene le parole e i concetti più utilizzati dalla retorica razzista e sessista che sta prendendo sempre più piede. Ogni lemma viene analizzato e “decostruito”, riportandolo alle reali proporzioni, ai dati, ai fatti. L’operazione è culturale e radicale perché di fronte all’espansione del fenomeno non bisogna indietreggiare, ma fornire strumenti per fronteggiarlo.

Tra queste pagine è possibile ritrovare la calma, il senso di giustizia e anche l’ironia per affrontare la comunicazione tossica.

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