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Europa senza Pace

sinrivistaNel cammino di lavoro che attende i movimenti disarmisti e pacifisti credo che la tappa europea sia ineludibile e fondamentale. In tale passaggio una riflessione profonda sulla possibilità di una difesa comune delle nazioni facenti parte dell’Unione è cruciale.

A prima vista ciò potrebbe apparire anche un po’ strano: come mai dei movimenti che si richiamano alla nonviolenza e a un disarmo complessivo (con prospettiva di eliminazione degli eserciti) dovrebbero cercare di razionalizzare e rendere più efficace la risposta armata europea? Qualcuno potrebbe obiettare e chiedermi un motivo sensato del perché, in definitiva, dovremmo spostarci dalla nostra posizione che chiede un’eliminazione completa delle armi. La considerazione che ci deve indurre a fare questo passo deriva da un’analisi dei processi storici: nessuna trasformazione si può realizzare con immediatezza e per tutto, soprattutto per le cose più importanti, c’è ovviamente bisogno di un percorso di trasformazione. Certo bisogna stare attenti, perché il rischio di diventare solo strumentali e funzionali a una miglioramento di efficacia di una risposta ai problemi del mondo che non ci piace e sempre dietro l’angolo.

D’altro canto arroccarsi solo in posizioni ideali che non possono giocarsi nella concretezza quotidiana e fattiva delle trasformazioni sociali rischia di essere altrettanto, se non peggio, inefficace. In questa fase storica solo allargando la base di sostegno le nostre proposte, quindi cercando questo sostegno anche al di fuori di chi parte da una posizione vicina, possiamo provare ad avere un minimo di successo. Nell’ottica dunque di un “transarmo” che porti al disarmo completo che è nei nostri sogni l’unificazione anche europea della difesa può essere davvero un passo decisivo.

Partendo da questa prospettiva, criticabile ma che mi pare avere un certo senso, ritengo essere due le direttrici per le quali uno sforzo anche del mondo della nonviolenza verso una ridefinizione della difesa militare europea possa essere sensato ed importante. Da un lato c’è ovviamente la questione finanziaria ed economica: in questo periodo di crisi una razionalizzazione comune in seno all’Unione Europea delle risorse utilizzabili per la difesa di stampo classico potrebbe comportare un ritorno molto importante.

Abbiamo già notato in altri lavori come siano gli stessi think tank “mainstream” a sottolineare questa opportunità. Secondo un recente rapporto Bertelsmann Stiftung (“The Fiscal Added value of Integrated European Land Force”) ridurre anche solo di un terzo il numero dei soldati pronti a partire in missione da parte di tutti gli eserciti europei comporterebbe un immediato risparmio di circa 9 miliardi di euro di spesa complessiva.

Un’altra recente ricerca, condotta dallo IAI (Istituto Affari Internazionali) e dal titolo “I costi della non-Europa della difesa”, ha invece mostrato come un percorso di razionalizzazione dell’esercito europeo verso un’unica forza avente i medesimi livelli di standard ed efficienza delle Forze Armate USA (prese come punto di riferimento operativo-militare) permetterebbe un risparmio fino ad anche 120 miliardi di euro complessivi (di cui fino ai 14 per la sola Italia). Numeri certamente non banali e che possono avere un senso più ampio del mero conteggio contabile, anche agli occhi di chi ipotizza un percorso diverso di difesa. Che sempre di più deve diventare una parola da “recuperare” e non lasciare al solo ambito militare. Non dobbiamo contribuire a pensare che “Difesa” significhi in automatico forze armate ed intervento di matrice violenta. Oggi noi pensiamo che il miglior modo di difendere i cittadini e le cittadine, anche quelli europei ovviamente, sia potenziare maggiormente gli investimenti che garantiscono davvero la preservazione ed il miglioramento della loro vita. Sono quindi le politiche di salute, istruzione, lavoro, welfare ad essere l’orizzonte di difesa che dobbiamo valorizzare e costruire. E lo si fa meglio con maggiori fondi a disposizione…

Per cui, riprendendo le stime del Global Peace Index elaborato dall’Institute for Economics and Peace, si può considerare come il costo complessivo per il contenimento della violenza su scala sociale (cioè totale di attività economica legato alle conseguenze o alla prevenzione della violenza, sia intesa contro le persone che contro la proprietà) sia stato nel 2012 pari a 9.460 miliardi dollari. Una cifra che corrisponde all’11% circa del PIL mondiale. Mettendo in atto strategie per eliminare o almeno ridurre tale fardello si libererebbero ingenti risorse positive: anche solo con una riduzione di circa il 50% della violenza si potrebbe ripagare il debito del terzo mondo (oltre 4000 miliardi di dollari), reperire fondi sufficienti per costruire un meccanismo europeo di stabilità (circa 900 miliardi) e finanziare la somma aggiuntiva richiesta per ottenere il costo annuale degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Non male come “difesa civile alternativa” derivante anche dalla risistemazione continentale di quella classica.

L’altra direttrice che mi pare interessante è di natura invece più politica. Ritengo infatti che la costruzione di una politica di sicurezza e difesa comune non possa andare avanti da sola, ma necessiti di una parallela evoluzione della sfera di politica estera dell’Europa. Che non appaia paradossale: sono gli stessi vertici militari a fare spesso la medesima richiesta. Se da un lato infatti è impossibile pensare ad una difesa senza aver individuato chi difendere e quali minacce bisogna contrastare (anche se l’Italia è un tale situazione da anni) dall’altro non è nemmeno possibile andare a definire tutte queste cose senza chiarire “chi” si è e quali siano gli interlocutori esterni ad una territorialità politica ben definita. Per cui la carta della politica estera è fondamentale in tutti questi aspetti, e a mio parere contribuirebbe anche a rafforzare il percorso unificatore di risparmio che abbiamo già visto in tutta la sua rilevanza.

Ma c’è di più. Tutti questi sforzi noi li dobbiamo fare nella prospettiva tratteggiata all’inizio di questo scritto, cioè come un passaggio intermedio e non come un risultato finale che ci potrebbe solamente “imbrigliare” in una strada di mera maggiore efficienza. I movimenti per la pace ed anche per il disarmo di tutto il continente hanno infatti da tempo sviluppato anche delle proposte e dei percorsi alternativi per quanto riguarda la risoluzione – o meglio la trasformazione nonviolenta – dei conflitti. Sia che si tratti di conflitti al di fuori dell’Europa sia che si tratti di conflitti, economici e sociali in particolare, all’interno dei suoi stessi confini. Sviluppare perciò una politica estera nuova, più comunitaria che più legata a dimensioni non particolari ma continentali, potrebbe a questo punto essere maggiormente ricettiva anche nei confronti di quest’alternativa. Un’alternativa che non è solo ideale, ma che ha già visto diverse sperimentazioni soprattutto sui temi relativi agli interventi civili di pace (esplicati in particolare con lo strumento dei corpi civili di Pace). Ci vogliamo almeno provare?

 

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