Anche l’Italia ha assunto l’impegno a destinare il 5% del Pil alle spese militari. Un obiettivo che Meloni considera sostenibile in termini di bilancio pubblico. Ma è davvero cosi? Quanto ci costerà aumentare le spese in armi e difesa? E sopratutto, dove verranno presi i soldi? Su Fanpage una intervista a Francesco Vignarca – coordinatore delle campagne Rete italiana Pace e Disarmo e analista dell’Osservatorio Milex – a cura di Giulia Casula
Al summit Nato i 32 Paesi membri hanno sottoscritto l’impegno a portare i propri livelli di spesa militare al 5% del Pil. Dietro al pressing degli Stati Uniti e nonostante le resistenze iniziali da parte di alcuni Stati come Spagna o Slovacchia, l’aumento ha trovato il via libera degli alleati. Anche l’Italia si impegnerà a centrare il nuovo obiettivo, che Meloni considera sostenibile in termini di bilancio pubblico, nonché necessario per rafforzare la difesa dell’Alleanza. Ma è davvero cosi? Quanto peserà aumentare le spese in armi e sicurezza sulle casse dello Stato? E sopratutto, da dove verranno presi questi soldi? Ne abbiamo parlato con Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne Rete italiana Pace e Disarmo e analista dell’Osservatorio Milex.
Quanto costerà all’Italia portare le spese militari dal 2% al 5% del Pil
Attualmente l’Italia si trova al di sotto del 2%. Cosa significherebbe alzare il livello di spesa al 5% del Pil? “Non è facile valutare la spesa militare perché all’interno di quella definizione ci sono elementi che da un lato non sono valutati in maniera simile nei vari bilanci e dall’altro possono essere oggetto di valutazione per essere inseriti o no. La spesa militare ‘pura’ dell’Italia si aggira attorno all’1,5% del Pil. Il governo con alcuni trucchi contabili, cioè inserendo cose che non sono mai state considerate spese militari, ha dichiarato di essere già al 2%”, dice l’esperto. “Dobbiamo sottolineare che anche questo accordo dell’Aia, così come il precedente accordo del Galles del 2014 non è vincolante, cioè non è stato sottoscritto un trattato o votata una legge che obbliga tutti i governi ad andare a quel livello. Sono dei ‘pledge’ politici, come l’Italia ne ha sottoscritti tanti in passato e spesso mai rispettati”.
Di questo 5%, il 3,5% sarà destinato al riarmo in senso stretto, mentre il restante 1,5% alla ‘sicurezza’ in cui rientrerebbero ambiti diversi, dalle infrastrutture in cui il governo vorrebbe includere i soldi per il Ponte sullo stretto, all’immigrazione in cui troverebbero spazio i centri in Albania, fino all’intelligenza artificiale e alla cybersecurity. Se ci soffermiamo solo il 3,5% cioè la spesa militare pura, “questo target costerà all’Italia 700 miliardi”, ci spiega Vignarca. Dal momento che il livello di spesa attuale si aggira attorno al 2% però, quella che va considerata la differenza, cioè l’1,5% che l’Italia dovrà aggiungere e che si traduce in 222 miliardi di euro. “Se invece consideriamo l’intero target del 5%, non solo la parte di spesa militare pura, il conteggio totale di questo 5% nei prossimi 10 anni, se ci sarà una progressione aritmetica è di 964 miliardi, cioè 445 miliardi in più rispetto al livello attuale del 2%”, prosegue. “Vuol dire che bisognerà trovare nei prossimi 10 anni una media di 44 miliardi di euro all’anno. Cifre davvero molto grandi se consideriamo che, per dire, una manovra finanziaria di solito è di 15 miliardi”.
Peraltro, l’idea di parametrare le spese militari al Pil “è folle dal punto di vista operativo”, sottolinea. “Il Pil è una misura non dei soldi che lo Stato ha, ma della ricchezza prodotta da un Paese. È una stima statistica non è il bilancio dello Stato che ti permette di capire quale percentuale spendere in questo o quale in quell’altro”, ricorda. Oltretutto si tratta di una statistica calcolata ex post, al termine del periodo preso in considerazione (in genere l’anno solare). “Quindi come è possibile pensare di impostare seriamente, dal punto di vista militare, le spese per la sicurezza su un parametro che è incognito all’inizio, che è aleatorio e che soprattutto può subire dei cambiamenti assolutamente imprevisti? Non ha alcun senso”, rimarca.
Il governo Meloni dove prenderà i soldi da spendere in armi e difesa?
Meloni è convinta della fattibilità della richiesta Nato, ma non ha spiegato come intende recuperare i soldi necessari per rispettare l’impegno preso. Eppure ha assicurato che “neanche un euro” verrà tagliato da altri settori. “Il problema che nasce dai conti di quanto dovrà sborsare l’Italia è capire dove verranno presi questi soldi. La natura di quelle che saranno le spese non è chiara e fa capire come siamo di fronte a un feticcio, un trucco per favorire quelli che da un rialzo di questi investimenti traggono dei vantaggi”, dice l’analista. “Si è solo deciso di di di dare un target insensato, non basato su dati, assolutamente artificioso. Di sicuro queste risorse l’Italia dovrà metterle sul piatto e non è sensato dire facilmente come dice la presidente del consiglio Meloni che è tutto di sostenibile. Forse lei pensa al fatto che il governo sta cercando di ipotizzare nei prossimi anni una crescita molto piccola per arrivare al 2%, scaricando quindi su governi successivi gli aumenti più forti e anche più devastanti dal punto di vista dei conti pubblici”, prosegue.
Questi soldi però, andranno in qualche modo trovati. “Ci sono tre possibilità che uno Stato ha per reperire fondi e metterli su altri capitoli di bilancio: alzare le tasse, tagliare qualche altra spesa dal proprio bilancio o prenderli a debito”. Quest’ultima ipotesi è difficilmente praticabile per l’Italia che si trova a un livello di debito molto alto. “Tant’è vero che la stessa direttrice del Fondo Monetario Internazionale (Kristalina Georgieva, ndr), ma pure l’Ufficio parlamentare di bilancio e Eurispes, hanno detto che se l’Italia vorrà mettere soldi sulla spesa militare, dovrà sicuramente tagliare qualcos’altro”. Questo qualcos’altro si tradurrà presumibilmente in tagli alla spesa sociale, agli investimenti in altri comparti, industriali ed economici “perché non l’Italia potrà accedere a un a un prestito, nemmeno quelli europei, perché non abbiamo la capacità fiscale e finanziaria”, dice Vignarca. Per ovvie ragioni, alzare le tasse non è preferibile, quindi “è abbastanza evidente che il risultato di questo aumento spropositato della spesa militare avrà come risultato quello del taglio di altri tipi di spese”, conclude.
L’Italia riuscirà a centrare l’obiettivo Nato come dice Meloni?
La premier ha parlato di un percorso flessibile, in cui saranno i singoli Stati a valutare quali misure conteggiare all’interno del calcolo di spesa Nato. Un iter meno rigido renderà gli obiettivi realizzabili nel concreto? “Il fatto che la spesa al 5% sia stata separata in due parti fa capire che siamo di fronte a una richiesta del tutto politica, da parte degli Usa, in particolare dell’amministrazione Trump, per imporre qualcosa che vuole essere a vantaggio della propria industria”. Il target del 5% “sembrava fondamentale, un modo cruciale per ripagare gli Stati Uniti, ma non è vero. Gli Usa sono in Europa per i loro interessi, tant’è vero che nonostante dicano “vogliamo abbandonare l’Europa” non ho visto partire un uomo né chiudere una base. Oltretutto queste spese non sono richieste per riequilibrare le spese Nato, ma sono investimenti nazionali quindi quella è semplicemente una scusa”.
“Il punto vero – prosegue Vignarca – è che siamo di fronte a un grande feticcio. È chiaro che se si dà molta libertà a questo modo di contare l’1,5% vale tutto: il Ponte sullo Stretto, i centri in Albania, altri tipi di interventi che sono di altra natura. Questo da un lato può anche andare bene perché fa capire che in quel pezzo di spesa potrebbero rientrare altri tipi di spese che solo ‘fintamente’ inserisco nell’ambito militare. Però questo dipenderà dai governo quindi è pericoloso comunque”. Per quanto riguarda la flessibilità nelle modalità in cui andrà raggiunto quell’obiettivo,” dalle nostre statistiche Milex si capisce che il modo in cui verrà alzato il livello avrà delle ricadute sul quanto”, sottolinea. “Se inizi ad aumentare piano piano in maniera aritmetica spenderai di più nei primi anni, mentre se aumenti pochissimo all’inizio e poi fai il salto finale negli ultimi due tre anni avrai una spesa minore e anche un costo politico minore. Probabilmente è per questo che il governo Meloni sta andando in quella direzione, perché sa che oggi non ci sono i soldi, l’unica sostenibilità che viene sbandierata è quella di spendere poco adesso”.
Aumentare le spese militari ci renderà più sicuri?
Meloni dice che l’aumento degli investimenti funzionerà come uno strumento di deterrenza e che attraverso la difesa passa la nostra sicurezza. Spendendo più soldi saremo più sicuri? “L’idea che questo aumento delle spese militari ci porterà maggiore sicurezza è assolutamente sbagliata”, risponde Vignarca. “Noi come movimenti pacifisti non violenti per il disarmo la critichiamo come concetto di base. La vera sicurezza è la sicurezza condivisa, è la sicurezza umana quando ci sono delle comunità nazionali e internazionali in cui non si ha paura dell’altro, si coopera e quindi si migliora la vita quotidiana di ciascuno e la gente si sente conseguentemente più sicura. Una sicurezza condivisa, appunto”, ribadisce. “Ma anche se volessimo ipotizzare che l’aumento delle spese militari aumenta la la capacità militare e quindi aumenta la deterrenza, si innesca il paradosso per cui se tu ti armi di più, quelli attorno a te hanno paura che tu ti sei armato di più e si armeranno a loro volta di più. È un ipotesi che i fatti degli ultimi decenni dimostrano infondata. Anche se volessimo darle una chance, l’aumento della spesa militare non sarebbe nemmeno in quel caso lo strumento adeguato perché ci si limita imporre spendi di più, senza dare un’indicazione di come, di cosa, se ha senso o meno. Siamo di fronte non a una scelta sensata, anche se viene presentata così in maniera retorica, che servirà sopratutto a favorire gli interessi armati”, conclude.