NUCLEARE La scelta di riprendere i test, o anche solo di minacciarli visto che gli annunci del presidente Usa sono come al solito confusi, può innescare una catena di reazioni. Mio editoriale per Il Manifesto.
L’annuncio, o anche solo la minaccia, di una possibile ripresa dei test nucleari da parte degli Stati uniti rappresenta un passo indietro gravissimo. Non solo rispetto alla moratoria de facto che da decenni ha saputo mantenere un fragile equilibrio globale, ma soprattutto rispetto ad una idea (speranza?) di evoluzione delle relazioni internazionali con prospettiva di responsabilità e riduzione delle tensioni.
Quando uno Stato potente come gli Usa sceglie di tornare a sperimentare concretamente ordigni nucleari manda un messaggio che rompe qualunque tacita moratoria, qualunque equilibrio finora raggiunto. In quel gesto c’è la revoca implicita del diritto come base nelle relazioni internazionali con un ritorno alla logica della guerra fredda e dell’escalation, in cui ogni potenza nucleare sente di dover rispondere, adeguare i propri arsenali, tornare a misurarsi (idealmente e politicamente) con «l’efficacia» dell’arma finale.
Ma non è soltanto questione di segnale politico o militare: dietro la ripresa dei test c’è un carico reale di distruzione ambientale e sanitaria. Le esplosioni nucleari anche se sotterranee o «controllate» rilasciano radioattività, contaminano falde, creano effetti che superano i confini nazionali e temporali. Le comunità che hanno vissuto quei test lo sanno bene: malattie, infertilità, malformazioni, terre inquinate.
La scelta di riprendere i test, o anche solo di minacciarli visto che gli annunci di Trump sono stati come al solito confusi e indefiniti, può innescare una catena di reazioni. Mosca si dice pronta a «rispondere», Pechino accelera il suo programma di modernizzazione e ampliamento nucleare (che già oggi rappresenta il più massiccio investimento qualitativo e quantitativo della storia recente) mentre la Corea del Nord continua a dare dimostrazioni di forza attraverso lanci di missili e simulazioni. Allo stesso tempo, la Nato, di cui l’Italia fa parte, prosegue con esercitazioni nucleari periodiche in cui vengono addestrati equipaggi e mezzi per l’utilizzo di ordigni atomici. Tutto ciò mentre la Russia fa altrettanto con le proprie forze strategiche e con la continuazione dei piani di condivisione nucleare con la Bielorussia, alimentando una spirale di tensione e di rischio.
Il quadro è tristemente chiaro: il mondo non si sta muovendo verso il disarmo, ma verso un nuovo riarmo nucleare. Tutte le potenze dotate di tali armamenti – Stati uniti, Russia, Cina, Francia, Regno unito, ma anche India, Pakistan, Israele e Corea del Nord – stanno investendo miliardi per modernizzare i propri arsenali, costruendo testate più precise, più rapide, più «usabili» quantomeno nella percezione di politici e miliari. Abbassando una soglia di attivazione di questa scelta sempre più pericolosamente vicina. Gli Stati uniti, ad esempio, hanno varato piani da centinaia di miliardi di dollari per aggiornare bombe, missili, sottomarini e infrastrutture, mentre la Russia sviluppa nuovi vettori ipersonici e la Cina triplica le proprie testate operative, amplia i siti di lancio e vuole raggiungere la stessa forma di “triade nucleare” dei propri avversari globali.
Riprendere i test nucleari è un passo che non solo consoliderebbe questa corsa, ma contribuirebbe a renderla inevitabile. Ogni esplosione sperimentale rappresenterebbe la legittimazione del concetto stesso di «necessità nucleare»: l’idea che le armi atomiche vadano migliorate, testate, rese sempre più efficienti. Una scelta che va contro decenni di sforzi diplomatici, contro lo spirito del Trattato di Non Proliferazione che tutti i invece richiamano come pilastro degli equilibri mondiali e contro la logica stessa della sopravvivenza umana.
Non basta più pensare che «noi non la useremo»: bisogna agire perché nessuno la possa usare, né sviluppare, né testare. Non possiamo permetterci di considerare questa prospettiva come un problema lontano. L’Italia, Paese che ospita ancora armi nucleari statunitensi nelle basi di Ghedi e Aviano, ha una responsabilità diretta. Non basta nascondersi dietro la formula della «deterrenza condivisa» della Nato: occorre un atto politico chiaro. Roma deve condannare con forza qualsiasi ipotesi di ripresa dei test nucleari e, soprattutto, deve uscire dall’ambiguità che la tiene legata alla presenza di testate sul proprio territorio.
Una posizione chiara dell’Italia avrebbe un peso politico importante, dentro e fuori la Nato. Sarebbe un segnale di coerenza con la nostra Costituzione, che «ripudia la guerra», e un atto di responsabilità verso un’Europa che oggi rischia di essere di nuovo campo di confronto nucleare. Continuare a partecipare ad addestramenti e pianificazioni atomiche, mentre si parla di «difesa europea» e di «autonomia strategica», è una contraddizione che mina la credibilità delle istituzioni e allontana la pace. Sarebbe invece ora di aderire al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (Tpnw), di partecipare come osservatore alle conferenze degli Stati Parte e di avviare un percorso concreto di rimozione delle armi nucleari statunitensi dall’Italia.
