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Quante armi ci sono nel nostro paese?

Pistola BerettaL’opinione di Francesco Vignarca, della Rete Italiana per il Disarmo, dopo lo stop di Renzi alla “proliferazione delle armi”

Alcuni giorni dopo la strage nel Tribunale di Milano, il premier Renzi ha detto di voler fermare la “proliferazione delle armi” nel nostro Paese. Accedere ad un arma attraverso regolare porto d’armi non è semplice, perché visite e controlli sono molto severi. Sono circa 10 milioni le armi presenti in Italia, secondo dati dell’Eurispes del 2008 «speriamo che almeno le autorità abbiano dati più aggiornati, perché il problema sta tutto lì, non sapere dove sono le armi e chi le ha in mano – dice Francesco Vignarca, della Rete Italiana per il Disarmo – ma l’Italia non è sicuramente uno dei paesi da far west in cui è facile entrare in un negozio e comprare un’arma. Le norme sono molto restrittive nel momento del rilascio, per ottenere il porto d’armi. Diventa molto più complicato mantenere un controllo, una volta acquisita quella facoltà».

Cosa pensa della “proliferazione delle armi” in Italia?

«Il commento va differenziato: noi del disarmo vorremmo che ci fosse una riduzione delle armi a tutti i livelli, dalle nazioni, agli eserciti, alla difesa personale. Ma per lavorare sul serio e non con gli slogan, la situazione va contestualizzata. C’è un maggiore accesso alle armi nei gesti drammatici, per la condizione economica e sociale che si sta degradando, ma l’Italia non è sicuramente uno dei paesi da far west in cui è facilissimo entrare in un negozio e comprare un’arma. Alcune inchieste in questi giorni hanno riportato il fatto che sempre di più si cerchi di aggirare l’accesso al porto d’armi, più complesso e che richiede molti passaggi burocratici e autorizzazioni: ci si rivolge al tiro sportivo, che non permetterebbe, se non in particolari casi, un accesso diretto a un arma in casa, però lo rende più facile. Inoltre le norme vanno aggiornate: da una parte c’è il Testo unico sulla pubblica sicurezza, che affonda le proprie radici nell’epoca del fascismo, dall’altra una legge del 1975 sulla distribuzione e diffusione degli armamenti, istituita durante gli anni di piombo. Se è vero che non serve un’arma per uccidere, è dimostrato come l’accesso più semplice alle armi permetta uccisioni più strutturate e un loro più facile utilizzo, come al Tribunale di Milano».

Il punto è l’aggiornamento della legge?

«Le norme sono molto restrittive nel momento del rilascio, per ottenere il porto d’armi. Diventa molto più complicato mantenere un controllo, una volta acquisita quella facoltà. Nessuno va a controllare sensatamente se nella vita della persona ci sono dei fatti, delle situazioni, che vanno a minare la capacità di gestione dell’arma. Un controllo continuativo sarebbe opportuno, così come sapere quante armi ci sono in Italia. L’unica ricerca attendibile è quella del 2008 dell’Eurispes, che ci parlava di circa 10 milioni di armi, con 4 milioni di famiglie armate. Speriamo che almeno le autorità abbiano dati più aggiornati, perché il problema sta nel non sapere dove sono le armi e chi le ha in mano. Questo controllo dovrebbe essere sostenuto dagli stessi tiratori sportivi, se vogliono davvero differenziarsi».

Come si inserisce nel discorso il forte export dell’Italia?

«L’Italia fa molto per l’export di armi militari e di sistemi d’arma: la legge 185 del 90 regola solo queste due categorie, ma non si applica alle armi di uso civile: questo da sempre ha creato un buco enorme che noi denunciamo. Fra il 2009 e il 2010 l’Italia ha esportato oltre 11 mila postole e fucili direttamente nelle mani dei reparti di sicurezza di Gheddafi, in Libia, come armi ad uso civile e sportivo. Ovviamente non è accettabile: queste armi spesso possono tornare indietro, fisicamente con traffici del mercato nero, oppure possono diventare armi in mano ad “avversari” dei nostri contingenti all’estero. Questo è successo in Iraq, dove 30 mila pistole, a metà degli anni 2000, sono finite in mano a chi sparava contro i contingenti italiani. In Libia, molte armi possedute dai vari gruppi in combattimento nel paese sono sicuramente di provenienza italiana. Avere un controllo forte sull’export degli armamenti non è solo un atto di solidarietà nei confronti dei destinatari, ma una strategia intelligente per proteggere noi stessi in futuro. Ricordiamoci un altro elemento fondamentale nei conflitti, che è quello del munizionamento, che è una chiave di controllo di queste situazioni: senza munizioni le armi perdono la loro pericolosità, e spesso viene sottovalutato».

Tornando alla dichiarazione di Renzi: avrebbe potuto generalizzare, invece ha parlato proprio della proliferazione delle armi.

«Noi abbiamo reagito cercando di stimolarlo sui social network che gli sono molto cari, sperando che queste parole diventino reali. Sono state pronunciate forse perché alcuni dei parenti delle vittime hanno evidenziato chiaramente l’aspetto dell’acceso alle armi e per Renzi non era possibile cavarsela con delle dichiarazioni di rito. Speriamo che si voglia continuare a lavorare davvero in questo senso, con noi e con chi vuole un accesso agli armamenti. Noi crediamo che un percorso diverso sia possibile, confrontandosi con tutti, ma con l’appoggio delle istituzioni e senza slogan».

 

Intervista a cura di Matteo De Fazio