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Lo sguardo indipendente sulla spesa militare. Intervista ad Aude Fleurant (Sipri)

Nato nel 1966, il SIPRI è un istituto internazionale con sede a Stoccolma impegnato in ricerche su conflitti, armamenti e disarmo. Mia intervista per Altreconomia (numero di giugno 2018) alla Direttrice del programma sui trasferimenti d’arma, Aude Fleurant

Incontriamo Aude Fleurant, che dirige il programma sui trasferimenti di armi e le spese militari del prestigioso Stockholm International Peace Research Institute, nella sede centrale dell’Istituto a Solna, alla periferia nord della capitale Svedese, in una palazzina immersa nel verde nella quale lavorano alcuni tra i principali esperti mondiali della materia.  Al momento dell’incontro gli ultimi dati SIPRI sulla spesa militare sono usciti da pochi giorni, e mostrano per il 2017 un ulteriore aumento con un livello di spesa vicino a quelli alla fine della Guerra Fredda. 

“Le spese militari globali si sono per lo più stabilizzate su livelli alti dal 2009, con piccole variazioni annuali in termini reali (0,3% in media) – spiega Fleurant – Da quell’anno, la spesa militare si è ‘stabilizzata’ con livelli di spesa di circa 1,7 trilioni di dollari, il 18% in più rispetto alle spese militari nel 1988”.

DOMANDA Un percorso a tappe?

Ci sono state tre fasi principali nell’evoluzione della spesa militare dalla fine della Guerra Fredda: immediata diminuzione con lo smantellamento del Patto di Varsavia che portò a un calo delle spese militari del 30% tra il 1988 e il 1996; un significativo aumento (+ 68%) trainato da Paesi coinvolti nelle operazioni militari grandi e costose svolte in Iraq e Afghanistan, che comprendevano paesi della NATO e delle Coalizioni alleate agli USA; una fase, attuale, conseguente allo shock della crisi economica e finanziaria del 2008.

Gli elementi alla base di questa terza fase sono meno evidenti. L’effetto di appiattimento a livello globale può essere fuorviante, dando l’impressione che la spesa militare si sia stabilizzata. Tuttavia, uno sguardo alle tendenze regionali mostra che la situazione dal 2009 è più complessa. La crisi finanziaria del 2008 ha colpito alcuni tra i maggiori speditori militari, in particolare gli Stati Uniti, i membri dell’UE, il Giappone, l’Australia. Tuttavia, altri grandi protagonisti di questo comparto (India, Cina, Russia, Brasile) hanno mantenuto o aumentato le loro spese militari durante lo stesso periodo, neutralizzando parzialmente la diminuzione. Nel 2014, la caduta del prezzo del petrolio ha avuto un impatto sulla spesa militare di altri Stati che dipendono dalle entrate del petrolio e del gas per la spesa pubblica. Ciò è accaduto mentre diversi Paesi che avevano sofferto della crisi stavano iniziando a riprendersi. Quindi l’apparente stasi che stiamo osservando non è una vera stabilità, ma indica che tendenze di segno diverso sono al lavoro a livello regionale e sub-regionale e che in una certa misura si neutralizzano a vicenda. Questo può essere motivo di preoccupazione, poiché potrebbe indicare una maggiore volatilità nelle situazioni di sicurezza globali, regionali e subregionali. Una preoccupazione amplificata dal fatto che le narrazioni di una maggiore percezione della minaccia (Cina nell’Asia orientale, India-Pakistan nell’Asia meridionale, Russia in Europa) e diversi conflitti in corso stanno portando i politici ad aumentare le spese militari.

Considerando la volatilità e l’incertezza che circonda le tendenze attuali, è difficile anticipare cosa aspettarsi nel prossimo futuro. Tuttavia, ci sono alcuni Paesi chiave da monitorare, poiché il loro peso nella spesa militare globale è abbastanza grande da cambiare la tendenza per tutti. Questo è in particolare il caso di Stati Uniti, Russia, Cina, India e Arabia Saudita. Naturalmente, anche gli Stati coinvolti nelle guerre devono essere osservati attentamente, soprattutto perché la trasparenza delle spese militari può essere un problema in situazioni di conflitto.

DOMANDA La spesa militare dagli Stati fornisce fondi che alimentano anche la produzione di armi e il commercio di armi…

Fleurant: E’ vero: come regola generale i bilanci della difesa nazionale comprendono una categoria per “acquisizione” o “approvvigionamento” di armi e servizi militari. Tutte cose che possono essere prodotte a livello nazionale se il Paese ha un’industria di armi, oppure possono essere importati da un fornitore straniero. Esiste una correlazione tra gli Stati con maggiore spesa militare e l’esistenza di un’industria nazionale degli armamenti e di norma il Ministero della difesa di quello stesso Paese è il più grande cliente dell’industria nazionale degli armamenti.

DOMANDA Ma dunque quali sono, se esistono, i collegamenti effettivi tra produzione e commercio di armi?

Fleurant: Uno dei problemi principali che i Paesi produttori di armi devono affrontare è la propria capacità finanziaria di sostenere l’industria. I sistemi di armi sono molto costosi da sviluppare e produrre e rimangono in servizio per decenni; perciò l’industria rischia periodi con pochissimi ordini con conseguente rischio di chiusura. Ciò comporta una pressione verso l’esportazione sul mercato internazionale; tuttavia il numero di potenziali clienti per le armi è limitato ad altri Ministeri della Difesa o agenzie equivalenti attraverso le importazioni e poiché l’industria degli armamenti è diffusa esiste una forte competizione per conquistare appalti. Ad esempio, negli ultimi anni è stata molto alta la competizione per la  vendita di aerei da combattimento tra Stati Uniti, Francia, Svezia ed  Airbus o Eurofighter a livello europeo: aziende che si sono “scontrate” in Brasile, Qatar, Belgio. Alcuni dei contratti conclusi con i paesi problematici, in particolare l’Arabia Saudita, sono stati giustificati proprio con la necessità di sostenere l’industria degli armamenti.

DOMANDA Quali sono le tendenze in questo comparto?

Fleurant: I trasferimenti di armi sono aumentati costantemente dalla metà degli anni 2000. Ciò significa che anche la domanda complessiva di armi è aumentata, in un contesto di guerra, tensioni e grandi programmi di modernizzazione. Come accennato in precedenza, il cliente più importante dell’industria delle armi è il Ministero della difesa dello stesso Paese in cui è basata. A seconda degli anni, le esportazioni possono rappresentare una quota significativa delle vendite di un’azienda, ma in media la maggior parte delle vendite proviene dal “cliente nazionale”.

I maggiori produttori di armi sono per lo più paesi dell’emisfero occidentale. Si potrebbe forse anche includere la Cina, ma la mancanza di dati per le società cinesi rende estremamente difficile includerli nella lista “Top 100” che elaboriamo al SIPRI.

In tale classifica dominano gli Stati Uniti, che hanno sei società tra le prime 10 tra cui il più grande produttore di armi al mondo per vendite di armi, Lockheed Martin. Gli Stati Uniti sono seguiti dal Regno Unito (con BAE Systems), dalla Russia (United Aircraft e molte altre società), dalla Francia (Thales), da società di natura diffusa europea (Airbus e MBDA) e dall’Italia. Le aziende italiane n tale lista sono Leonardo (ex Finmeccanica, tra i primi 10) e Fincantieri.

Questi Paesi sono anche tra i maggiori esportatori, verso un’ampia varietà di destinatari. Ad esempio, per il periodo 2013-2017, gli Stati Uniti hanno trasferito armi a 98 paesi, ma la regione che ha ricevuto la maggior parte delle consegne negli Stati Uniti è stata il Medio Oriente. I principali destinatari della Russia sono meno, in particolare l’India, l’Algeria e la Cina. Anche i Paesi dell’Europa occidentale hanno beneficiari limitati. Per la Francia, l’Egitto è diventato un cliente importante, a fianco dell’India, mentre le esportazioni del Regno Unito sono per la maggior parte in Arabia Saudita. I principali destinatari italiani per il periodo 2013-2017 sono gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Algeria.

DOMANDA Molti analisti sono convinti che seguendo le linee commerciali degli armamenti si possano prevedere i principali conflitti. Che tipo di relazione è possibile trovare oggi tra spese militari, produzione e commercio di armi, conflitti e guerre?

Fleurant: Tutte le armi convenzionali sono pensate per essere usate ma ritengo che la relazione tra conflitti armati e armi non sia automatica. Ogni situazione è unica e la situazione reale è più complessa di quanto possano suggerire alcune semplificazioni. Il mercato delle armi si basa principalmente su un processo decisionale politico, sebbene spesso anche argomentazioni economiche (come il contributo al PIL e all’occupazione) siano presentate per giustificare il trasferimento di grandi sistemi d’arma,

Ma la motivazione fondamentale esplicitata per sostenere l’acquisizione di armamenti è la sicurezza nazionale: le armi hanno lo scopo di affrontare una minaccia percepita per la sicurezza, che viene quindi definita in termini militari. Pertanto, le armi sono un fattore e una parte del conflitto, ma non l’unico. Le decisioni relative all’acquisizione di armi possono essere basate su vari elementi: una percezione delle minacce più elevata, tensioni con Paesi vicini, il coinvolgimento in conflitti o la modernizzazione di attrezzature militari obsolete. A questo, possiamo aggiungere alti livelli di corruzione, dal momento che il commercio di armi è davvero poco trasparente e con robusti sospetti di essere endemicamente incline alla corruzione. Si può anche dire che alcuni tipi di armi possano aumentare le tensioni tra i Paesi, in quanto il loro acquisto ed uso può essere messo in discussione o frainteso dagli Stati confinanti. Un rafforzamento nel “procurement” militare (che si definisce spesso corsa agli armamenti) nelle regioni che mostrano forti tensioni o sono in guerra costituisce sempre una preoccupazione importante.

Ciò che è ancora più allarmante è il fatto che negli ultimi tempi diversi Paesi produttori hanno fornito armamenti alle nazioni di queste regioni, contribuendo così a provocare un’escalation di tensioni e conflitti in alcuni dei quali, penso in particolare allo Yemen, le parti coinvolte stanno violando il diritto umanitario. Nel permettere questo commercio molti dei grandi Paesi produttori di armi non si stanno conformando al Trattato sul commercio di armi ATT, nonché – per i membri UE – alla Posizione Comune sull’esportazione di armi. L’indebolimento delle norme e regole internazionali che definiscono il commercio dei mezzi con i quali si può condurre violenza politica su vasta scala è una questione che deve essere affrontata a livello nazionale e internazionale.

DOMANDA: E per il futuro? C’è uno spazio possibile per una agenda internazionale di disarmo, come continuamente proposto anche dal Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres?

Fleureant: La spesa militare è elevata, i trasferimenti di armi sono cresciuti costantemente per diversi anni e di conseguenza anche le entrate dell’industria delle armi sono aumentate. Sono in fase di avvio importanti programmi di modernizzazione delle armi, compresi gli arsenali nucleari. Questo sta accadendo in un contesto di forti tensioni ed alta percezione delle minacce, il che è preoccupante. C’è una chiara necessità di aprire canali diplomatici e di vedere come depotenziare tali dinamiche. 

Va ricordato che le recenti iniziative di controllo e disarmo non sono state pienamente attuate o sono state ignorate soprattutto dai paesi Occidentali, in particolare dagli Stati Uniti (si pensi al Trattato di proibizione armi nucleare) ma anche da diversi paesi europei a riguardo della Posizione Comune, e dalla Francia sempre nell’ambito nucleare.

Tuttavia, in Europa, i sondaggi dimostrano che una parte significativa dell’opinione pubblica è contro i trasferimenti di armi agli stati coinvolti nella Coalizione saudita militarmente attiva nello Yemen. In alcuni casi, i politici eletti con tale mandato hanno agito su questo sentimento e la società civile ha spinto a fermare i trasferimenti in Arabia Saudita. Ciò è accaduto, ad esempio, in Norvegia, Finlandia, Germania, Belgio (a livello regionale) e Paesi Bassi. Ciò potrebbe indicare che preoccupazioni di questo tipo sono condivise e ci sia dunque spazio per la diplomazia, in uno sforzo che dovrebbe certamente includere l’ONU. Il sentimento pubblico appena descritto dovrebbe essere utilizzato come trampolino di lancio almeno per una dibattito internazionale sui trasferimenti verso le regioni in conflitto e il loro impatto sui civili e sulla e sicurezza regionale ed internazionale. Va poi notato come accordi specifici di divieto sugli armamenti (come per le mine anti-persona e le munizioni a grappolo) sembrano avere impatti positivi, quindi potrebbero essere un altro modo di procedere, sebbene ovviamente riguardino ambiti definiti e limitati. Credo però che prerequisito fondamentale per qualsiasi successo in questa ottica siano dialogo e trasparenza.

È importante assicurare il più possibile la conformità agli accordi e ai Trattati attualmente in vigore: non rispettare impegni presi è un bruttissimo segna. Un’altra possibile via di lavoro è quella di monitorare più da vicino i nuovi sviluppi tecnologici con potenziale militare o di armabilità, come si sta facendo in ambito ONU relativamente alle armi completamente autonome (i cosiddetti “killer robots”).

L’aiuto che posso fornire io, con il mio team al SIPRI, è fornire ai decisori politici dati e analisi indipendenti e affidabili. Per scegliere sulla base di elementi concreti e non di paure o bassi interessi elettorali od economici.

 


La versione pubblicata su Altreconomia (con testo ridotto ed editato per ragioni di spazio) di questo articolo è presente al link https://altreconomia.it/intervista-fleurant/

Il PDF dell’intervista pubblicata è scaricabile qui