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Contratto Italia-Usa, c’è ben poco da esultare

Articolo uscito su “il Manifesto” del 3 maggio 2020

 

La notizia, diffusa quasi con orgoglio dalle principali testate e con una evidenza poche volte concessa ad aggiornamenti sulle produzioni militari, sembrerebbe chiara e semplice: la Marina Militare statunitense ha sottoscritto un contratto plurimiliardario con Fincantieri (colosso navale italiano a controllo pubblico) per la produzione di una nuova classe di fregate.

Da qui un florilegio di commenti entusiasti e di analisi abbastanza sopra le righe, che addirittura paiono preconizzare una sorta di «rinascita economica» basata su tali commesse. Tralasciando per un momento la problematicità di una ricostruzione post-coronavirus fondata sulle armi, queste reazioni ottimiste si scontrano con una realtà delle cose che non ha in pratica alcunché di positivo per l’Italia.

Ricostruiamo dunque i fatti. Nei giorni scorsi la US Navy ha deciso di assegnare la costruzione del prototipo delle sue nuove navi di stazza medio-piccola a Fincantieri Marinette Marine, controllata statunitense (con sede produttiva in Wisconsin) del gruppo italiano. Il progetto FFG(X) che ha vinto il bando deriva dalle FREMM sviluppate per le Marine Militari di Italia e Francia.

Ad essere garantito è però solo l’accordo per la prima nave (da qui la «X» dell’acronimo, che dovrebbe cadere in caso di conferma definitiva) per un controvalore di 795 milioni di dollari. I 5,58 miliardi di dollari complessivi già dati per certi da molte voci (forse per magnificare l’accordo?) dipendono infatti da un’opzione che la US Navy deciderà solo in seguito se esercitare o meno (la fase di disegno finale del progetto inizierà immediatamente, mentre la costruzione dovrebbe prendere avvio entro aprile 2022). Inoltre, se in qualche modo si può davvero parlare di «successo progettuale» per la già citata derivazione del disegno (che ha battuto la concorrenza di Austal Usa, General Dynamics e Navantia tra gli altri) è difficile considerarlo un «successo manifatturiero».

Perché tutta la produzione verrà realizzata nei già menzionati stabilimenti statunitensi, una condizione ritenuta esplicitamente come «necessaria» dall’Amministrazione Trump che considera a tutti gli effetti Fincantieri Marinette Marine come un’azienda a stelle strisce indipendentemente dal controllo azionario. Con il risultato finale di un ritorno trascurabile e solo indiretto per il nostro Paese.

Certo Fincantieri ne deriverà un vantaggio come conglomerato, ma realizzandolo lontano dall’Italia e soprattutto ad un prezzo abbastanza alto. Per poter entrare nel lucroso mercato del procurement militare statunitense (ricordiamo che secondo i recenti dati Sipri gli USA hanno una spesa militare in crescita di 738 miliardi di dollari, il 38% del totale mondiale) Fincantieri ha dovuto infatti investire parecchio. L’acquisizione venne decisa e completata tra il 2008 e il 2009 sotto l’egida dell’allora Ad e attuale presidente Giuseppe Bono e con il carica il governo Berlusconi (l’azienda era controllata praticamente al 100% dallo Stato).

In un momento in cui la crisi finanziaria si stava già rendendo evidente venne presa la decisione di mettere sul tavolo circa 120 milioni di dollari per comprare il Manitowoc Marine Group, cui venne poi cambiato il nome. Un investimento in posti di lavoro statunitensi realizzato anche con la costituzione di società ex novo in Delaware (praticamente un paradiso fiscale interno agli Usa, sempre per la serie «vantaggio italiano»). E reso possibile da «linee di credito a breve termine» diventate successivamente «un finanziamento a medio/lungo termine per il valore dell’acquisizione» concessi da primarie banche italiane (non se ne conosce il nome) in una fase storica in cui la finanza chiudeva i rubinetti per molte altre aziende.

Come a dire: per le armi e gli affari militari i soldi si trovano sempre! E che Fincantieri ha trovato anche successivamente per la sua controllata Usa: già 180 milioni di dollari sono stati spesi per migliorare i cantieri in Wisconsin e ora ne verranno investiti ulteriori 100.

Fatti e numeri reali dunque smascherano la versione «trionfalista» che si legge in queste ore su molti media. Lasciando spazio ad alcune domande: perché aziende e governi italiani hanno ritenuto utile investire centinaia di milioni di dollari per produzioni e posti di lavoro lontani dall’Italia? Perché molti commentatori considerano positiva una delocalizzazione così evidente (cosa che non avviene per altri produzioni)? Perché molti politici ed analisti si rallegrano per un contratto vinto anche contro concorrenti europee e contemporaneamente chiedono sempre più soldi per sostenere la «cooperazione militare in Eu»? E infine la domanda centrale: perché la crisi legata al Covid-19, che ha spazzato diverse certezze, non è riuscita nemmeno a scalfire i privilegi degli «affari armati»?