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Occhi bendati sulla guerra

I conflitti nel mondo che non vogliamo vedere, gli interessi a cui non vogliamo rinunciare. E la pace può attendere…

Conversazione con Francesco Vignarca a cura di Giordano Contu

L’escalation del conflitto mai sopito tra israeliani e palestinesi ha riaperto il dibattito pubblico internazionale sulla guerra. Si parla meno dei 70 conflitti armati che si combattono oggi nel mondo. Questo perché ciò che accade ai confini dell’Europa si pensa che abbia un impatto maggiore sulle nostre vite. Quindi sappiamo degli scontri in Libia, in Siria e in Ucraina, ma poco o nulla sulle tensioni nelle Filippine e tra i narcotrafficanti messicani che riforniscono il Vecchio continente. E osserviamo ormai con distacco le atrocità quotidiane in Africa. Non sempre ricordiamo che l’industria italiana, al pari di altre grandi potenze mondiali come Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Regno Unito, fattura miliardi di euro vendendo armamenti ai gruppi belligeranti. Ogni anno nel mondo spendiamo 1.981 miliardi di euro in armi: con il 7 per cento della spesa vaccineremmo tutta l’umanità. Come si concilia il pacifismo della Costituzione italiana (articolo 11) con la guerra?

Ne abbiamo parlato con Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana per la Pace e il Disarmo e fondatore di Milex, l’osservatorio italiano per le spese militari.

Quante guerre ci sono nel mondo

“Non ci sono più le guerre di una volta”, dice Vignarca. “Se consideriamo la definizione di guerra in senso stretto, con una dichiarazione esplicita tra due Stati, potremmo dire che non ce ne sono”. L’immagine di due eserciti nemici che si combattono è un cimelio del ‘900. Per questo motivo oggi gli esperti utilizzano la parola conflitto, per definire scontri armati violenti di natura politica e sociale, a cui partecipano milizie, mercenari, oppositori politici, oltre che gli eserciti regolari. “Sono interventi armati che impattano sulle popolazioni più che scontri fra soldati”, afferma il pacifista. Oggi al mondo ci sono tra i 50 e gli 80 conflitti. Il numero sale se si considerano le violenze armate. L’Uppsala Conflict Data Program nel 2019 contava 50 violenze tra Stati, 60 violenze non statuali, 30 oppressioni su minoranze (one-sided). Considerando il tipo di armi utilizzate, il livello di distruzione, il numero di vittime, feriti e rifugiati, l’Heidelberg institute for international conflict research nel 2020 ha individuato 20 guerre che stanno destabilizzando il mondo: la guerra della droga in Messico, Colombia e Brasile, la crisi politica nel Donbass (Ucraina), lo scontro tra opposizioni in Libia, Siria, Turchia e Yemen, il terrorismo in Afghanistan, Somalia, Kenya, Nigeria, Mozambico, Mali, Burkina Faso, senza scordare le tensioni etniche e contro le minoranze in Myanmar, Filippine, Etiopia, Eritrea, Congo, Repubblica centrafricana e Camerun.

Le radici economiche dei conflitti

“Le ragioni dei conflitti sono soprattutto geostrategiche ed economiche, più che politiche e ideali. L’obiettivo è garantirsi zone di influenza”, sostiene l’analista. Come a dire che tra i motivi apparenti di uno scontro c’è la religione, l’odio etnico, la distruzione dell’ambiente, ma alla base c’è sempre una ragione economica.

Per esempio, in Colombia e Venezuela l’iniqua distribuzione dei beni primari si è trasformata in politiche statali che hanno destabilizzato i due Paesi. “Una delle zone più calde del mondo – continua Vignarca – è il Mar cinese meridionale dove la Cina, osteggiata dai Paesi vicini, tenta di costruire isole artificiali per avere la sovranità territoriale sul mare”. Nei conflitti più tradizionali, invece, permane una “forte componente simbolica” legata al possesso della terra: come nel conflitto israelo-palestinese che si allarga a tutto il Medio Oriente e coinvolge il mondo intero; o lo scontro tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir che è diventata “una questione di prestigio tra due figlie della rivoluzione gandhiana”. Ciò è all’origine di conflitti locali senza fine e di flussi migratori che spaventano i Paesi vicini e più ricchi.

Lo sfruttamento delle terre rare in Africa

Secondo il Global peace index 2019 tra i 50 Paesi meno pacifici al mondo 20 sono in Africa. Lì i conflitti si accentuano a causa dell’estrema povertà e della fragilità delle strutture sociali. “Gli Stati africani sono i peggio strutturati al mondo e di conseguenza anche le società sono più deboli – spiega Vignarca – ma non per incapacità loro, bensì per ragioni strutturali derivanti dalla fine dell’economizzazione (politiche di risparmio) e dall’ondata tecnologizzatrice che ha coinvolto i nuovi Stati africani, spesso sfruttati per gli interessi occidentali”. Oggi un aspetto paradossale che influisce sull’instabilità del continente è l’estrema ricchezza in termini di risorse del sottosuolo. Sono le terre rare, di cui la Cina è il leader nel commercio mondiale, che servono per costruire vari componenti dei prodotti tecnologici: smartphone, pannelli fotovoltaici, automobili elettriche, radar militari. Se in altre parti del mondo conflitti simili restano circoscritti, in Africa “spesso vengono alimentati perché è più facile, in una situazione caotica, sfruttare in modo rapace quelle risorse”, dice l’analista. Per esempio, nel Sahara occidentale da 50 anni il popolo Saharawi tenta di rendersi indipendente dal Marocco, ma di recente la situazione è peggiorata a causa della possibile presenza di giacimenti nel sottosuolo. Questa fragilità permette a molti soggetti di sfruttare l’Africa. “Sono conflitti che le popolazioni non vogliono, ma è chiaro che in un contesto così fragile fanno fatica a dire No alla guerra”.

Come sopravvive il terrorismo

“Il conflitto religioso non è veramente un conflitto religioso” sostiene Vignarca. “La religione è un elemento potente nell’animo umano e identitario nel gruppo sociale, perciò viene utilizzata per saldare le alleanze”. Insomma, alla base di uno scontro ci sono situazioni di disagio che alimentano la caccia all’untore. Le diversità etniche o religiose sono come etichette con cui un gruppo marchia il nemico a cui dà tutta la colpa del proprio malessere. Su questa base nacque l’idea dello IS di creare uno Stato islamico con una struttura statale, un codice di leggi e una moneta propri. “Per tanto tempo l’Occidente non aveva capito come combattere il terrorismo”, dice l’analista, “perché possedeva strumenti militari molto avanzati, ma utili solo per combattere una guerra tra Stati. L’Is ha fatto l’errore di creare un’entità che l’Occidente ha saputo riconoscere e sconfiggere”. Oggi assistiamo a una ripresa di forme di estremismo legate ad al-Qaida e articolate in cellule isolate e lupi solitari. “Venti anni di war on terror in Afghanistan, in cui poco o nulla è cambiato – prosegue Vignarca – ci fanno capire che le spese militari per ingrossare gli eserciti non sono utili dal punto di vista pratico, né
etico”. Secondo Action on armed violence (Aoav) nel 2016-2020 le vittime dei bombardamenti afgani erano per il 40 percento bambini: ne hanno ucciso 1600. Nella striscia di Gaza, a maggio 2021, un morto ogni quattro era un minore.

L’Occidente destabilizzato che destabilizza

“Paradossalmente l’Europa partecipa a molti conflitti. Sia in modo diretto inviando truppe, come l’Italia in Iraq e Afghanistan; sia indirettamente vendendo sistemi d’arma, per esempio l’Italia allo Yemen”, afferma Vignarca. Certamente, per la vicinanza geografica i Paesi europei sono più direttamente coinvolti dalle tensioni nei Paesi del Nord Africa e del Mediterraneo orientale. Infatti, le tensioni in Libia hanno causato un minor approvvigionamento di petrolio e la perdita di commesse di lavoro per le aziende del Belpaese, mentre la pressione sulla popolazione povera alimenta i flussi migratori di chi cerca lavoro e sicurezza. Come dimenticare il milione di siriani fuggiti in Europa? In tutto ciò va considerato che la dinamica del commercio di armi è molto chiara: i maggiori produttori sono i Paesi ricchi occidentali che le vendono, nelle aree a maggior tensione del pianeta, soprattutto ad Arabia Saudita, Emirati arabi, Qatar, India, Pakistan e nel Sudest asiatico. Per esempio, l’Arabia Saudita bombarda lo Yemen con aerei Eurofighter e bombe a guida laser fabbricati in Europa. In ogni caso “la maggior parte degli armamenti rimane in pancia ai Paesi produttori, dove sta crescendo la spesa militare: siamo arrivati a 1.981 miliardi di dollari all’anno”.

L’Italia che vende e compra armi

Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Milex sulle spese militari, nel 2021 Roma tirerà fuori dal portafoglio 1,8 miliardi di euro in più rispetto allo scorso anno, spendendo quasi 25 miliardi. Di questi, 7,3 miliardi impiegati per l’acquisto di armi e 11,4 miliardi per i costi del personale. D’altra parte l’Italia possiede un’industria di armamenti che offre lavoro, considerando l’indotto, a circa 150 mila persone. Tra i prodotti più ricercati all’estero ci sono elicotteri da guerra, caccia, sistemi di precisione, bombe, razzi, missili e armi da fuoco. L’analisi della Rete italiana per la pace parla chiaro: dall’ultima Relazione annuale al Parlamento sull’esportazione di armi si evince che nel 2020, nonostante la pandemia, il governo Conte ha autorizzato la esportazione di materiale bellico per un valore che sfiora i 4 miliardi di euro. Tra questi: 1 miliardo per due navi militari all’Egitto, commesse per Qatar, Turkmenistan, Arabia Saudita (a cui non vendono più missili e bombe), e poi Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Spagna. Dopo la recente approvazione del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza da parte del governo Draghi, l’organizzazione pacifista ha denunciato il tentativo di produrre mezzi militari e sistemi d’arma “green” impiegando le risorse europee del Recovery Fund. Quale etica guida il governo nell’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu, per ricostruire un mondo postpandemia che padri e madri hanno ricevuto in prestito dai quei figli che non vogliono la guerra?

La popolazione vuole la pace

“Le armi sono vendute con motivazioni infantili: dicono che occorre difendersi. Ma da chi? Ormai è chiaro che la vera minaccia non è l’invasione da parte di un esercito nemico, ma il cambiamento climatico a cui i Paesi Onu hanno destinato solo 10 miliardi di dollari”, sottolinea Vignarca. Il mercato delle armi appare florido e tecnologicamente remunerativo, ma non quanto l’aerospazio e il digitale, e occorre fare i conti con l’influenza che i Paesi acquirenti hanno sui venditori: pensiamo all’Egitto sull’Italia. “Purtroppo la retorica di quello che Dwight Eisenhower definiva il complesso militare-industriale è ancora forte e convince i decisori politici, ma è un vantaggio personale per la carriera di pochi”. Secondo un sondaggio di YouGov per Greenpeace il 60 per cento degli europei ritiene immorale l’esportazione di sistemi d’arma verso Paesi terzi. “Un cacciabombardiere fa danni e semina morte anche prima di essere utilizzato” dice l’analista, “perché quando l’Italia spende 140 milioni di euro per un caccia F35, ovviamente distoglie il denaro dalla costruzione di un ospedale. I soldi non sono utilizzati in modo giusto: con il 7 per cento delle spese militari mondiali si potrebbe vaccinare l’umanità contro il covid-19; con il 10 per cento si finanzierebbe l’educazione globale. Va ribaltata la concezione della pax romana, secondo cui si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra)”. La Rete per la pace e il disarmo promuove una visione positiva della pace, che persegue attraverso due obiettivi che coinvolgono le popolazioni: 1) bloccare il commercio di armi attraverso campagne mediatiche; 2) garantire l’equità dei diritti umani e la presenza delle istituzioni affinché si prendano cura del territorio e della società. “Solo così può ‘nascere’ la pace”.