home Parole e notizie 13.000 testate nel mondo (e 40 in Italia), ecco chi può premere il bottone

13.000 testate nel mondo (e 40 in Italia), ecco chi può premere il bottone

Mio articolo per il mensile “Millennium” del Fatto Quotidiano

PER ANNI È STATO un segreto di Pulcinella, ma ormai (grazie a documenti, analisi dirette e indirette e persino a una fotografia) nessuno lo può più negare: sul territorio italiano esistono testate nucleari statunitensi. Dispiegate in particolare in due basi (Aviano, in Friuli, e Ghedi Torre vicino a Brescia) nell’ambito del programma di “condivisione nucleare” previsto dalla Nato. Dopo la fine della guerra fredda il numero di tali testate si è ridotto a poche decine (per decenni invece sono state migliaia) e sta ulteriormente declinando negli ultimi anni: nel nostro Paese erano circa un centinaio nel 2005 e ora dovrebbero essere meno di 40. 

L’Italia ha dunque due basi dedicate a tale scopo: una, Aviano, completamente sotto controllo della Us Air Force mentre l’altra, Ghedi, fa parte del sistema della nostra Aeronautica Militare che ospita il 704th Munitions Maintenance Squadron responsabile della ricezione, dello stoccaggio, della manutenzione e del controllo delle testate da impegnarsi con il 6° Stormo italiano di stanza a Ghedi. Cioè responsabile di mantenere operative le testate che poi verrebbero utilizzate da piloti e aerei italiani che si addestrano a tale scopo (oggi con i Tornado, domani con gli F-35 per cui si stanno costruendo in questi mesi nuovi hangar). È la dottrina militare della “doppia chiave”: in tempo di pace le armi nucleari sono sotto il diretto controllo Usa (all’Italia e agli altri Stati è impedito, essendo parte del Trattato di non proliferazione nucleare) mentre in caso di guerra gli accordi internazionali verrebbero “stracciati” e le testate cedute ai Paesi alleati per un loro utilizzo diretto. Ciò significa, appunto, che ci sono uomini, mezzi, risorse costantemente dedicate anche dall’Italia al mantenimento di quella che eufemisticamente viene definita “capacità non convenzionale”. 

Questo tipo di testate viene chiamato “tattico” non solo e non tanto per la potenza esplosiva ridotta (ma che comunque può arrivare a diverse decine di volte quella sperimentata a Hiroshima e Nagasaki) ma soprattutto per il ruolo possibile in un conflitto militare: diversamente da quelle “strategiche” (composte da missili balistici, missili lanciati da sottomarini e ordigni trasportati da aerei) sempre pronte all’uso, non sono loro a garantire la cosiddetta “deterrenza”. 

LA CATENA DI COMANDO 

Per questo possono essere più pericolose: la minore capacità esplosiva può rendere la rottura del tabù nucleare “più pensabile”, perché chi pianifica le operazioni militari può ritenere che un maggiore grado di precisione riduca il rischio di danni collaterali e di vittime civili. Anche se di norma questo tipo di testate non è pronto all’uso e necessità di alcuni tempi tecnici per il dispiegamento (che quindi deve essere programmato). Il pericolo è però reale: ad esempio le nuove bombe statunitensi B61-12 (quelle che verranno dispiegate anche in Italia e che sono state testate con successo sugli F-35 alla fine del 2021) non solo hanno una capacità esplosiva regolabile (da frazioni a qualche decina di kiloton) ma sono guidabili con precisione sull’obiettivo e addirittura hanno una capacità penetrativa che permette loro di colpire un obiettivo nel sottosuolo. Una nuova situazione che ovviamente potrebbe indurre più facilmente a usarle. 

Lo stesso problema si ha con la dottrina nucleare russa, che negli ultimi anni ha significativamente abbassato la soglia sotto la quale è permesso l’uso di armi nucleari, ipotizzando che se la Russia fosse soggetta a un grande attacco non nucleare in grado di superare la propria capacità di difesa convenzionale, essa potrebbe pensare di ridurre l’impatto del conflitto lanciando un attacco nucleare limitato o tattico. La dottrina del cosiddetto “escalate to de-escalate”. Nessuno sa se l’uso di un’arma tattica possa scatenare una guerra nucleare su larga scala ma il rischio è davvero molto reale. Chi dovesse subire un attacco nucleare non si chiederebbe in prima istanza se sia stato tattico o strategico. 

Viste le recenti minacce di Putin va sottolineato che secondo la Costituzione è solo il Presidente della Federazione Russa ad avere l’autorità di prendere la decisione sull’uso di armi nucleari. Il comando operativo viene predisposto congiuntamente con il ministro della Difesa e il Capo di Stato maggiore, e viene trasmesso tramite una procedura attraverso il sistema di comunicazione “Kazbek”: ciò significa che Putin non ha direttamente i codici di lancio ma ordina ai Comandanti militari di decidere gli aspetti operativi. L’annuncio di fine febbraio di aver “aumentato l’allerta nucleare” può quindi coincidere con un miglioramento e accorciamento di tale linea di comunicazione. Solo in caso di attacco nucleare confermato sul suolo russo e perdita di contatto con l’autorità politica può essere attivata la procedura “Perimetr” che concede ai comandanti di teatro la facoltà di decidere l’uso di testate nucleare, similmente a quanto accade per i sommergibili britannici. 

Negli Stati Uniti il Presidente è l’unica autorità che può decidere usare le armi nucleari. La National Command Authority comprende il presidente e il Segretario della difesa attraverso cui si dipana la catena di comando verso i comandanti di teatro. Ma il Segretario non ha potere di veto e probabilmente serve solo per per stabilire la legalità dell’ordine confermando che è venuto dal Presidente, il quale possiede una carta di identificazione presidenziale, detta “cookie”, ed è sempre accompagnato dal President’s Emergency Satchel (la famosa borsa nera detta “football”) che non è un dispositivo di comunicazione, ma piuttosto memorizza opzioni di attacco – il “Libro Nero” – da cui il presidente può scegliere.  Per quanto riguarda la Cina invece l’autorità di riferimento per un ordine nucleare è la Commissione Militare Centrale che, almeno formalmente, dovrebbe consultare il Comitato permanente dell’ufficio politico del Partito Comunista Cinese (cioè la più alta autorità politica). Considerando però che il leader Xi Jinping è componente e presidente di entrambi questi organi è realistico pensare che la decisione finale si concentri nella pratica su di lui. 

L’EQUILIBRIO DEL TERRORE 

Ma quante sono le testate nucleari nel mondo? Le ultime stime della Federation of American Scientists ci raccontano di 12.700 testate di cui circa 9.400 fanno parte degli arsenali militari utilizzabili. Anche se ben 5.700 di queste rimangono nelle strutture di riserva e quindi quelle strategiche dispiegate sarebbero circa 3.600 (per Russia e Usa 1.600 ciascuno, 280 francesi e 120 britanniche sui sottomarini). Siamo di fronte dunque a una grande riduzione rispetto ai numeri della Guerra fredda (oltre 70 mila) ma questi ordigni sono in grado di cancellare l’umanità dalla faccia della terra svariate volte. E tutte le potenze nucleari stanno conducendo processi di ammodernamento degli arsenali, con un costo rilevante. La campagna internazionale Ican, che si batte per la messa al bando delle armi nucleari, ha stimato un impegno di 72,6 miliardi di dollari nel corso del 2020 per la gestione e il mantenimento delle oltre 13 mila testate nucleari totali, pari a 137.666 dollari ogni minuto. Si tratta di un aumento di 1,4 miliardi di dollari rispetto al 2019 (che già aveva visto un incremento di ben 7,1 miliardi di dollari sul 2018) nonostante la pandemia globale da Covid. 

È quindi evidente come le potenze nucleari non abbiano intenzione di dismettere i propri arsenali, ma vogliano continuare a perpetuare un “equilibrio del terrore” che non solo drena risorse pubbliche in un sistema che basa la propria sicurezza sulla minaccia di distruzione totale, ma si rivela fragile e molto pericoloso. Perché il rischio che un conflitto possa cominciare in maniera accidentale o per un concorso di fattori che portano a un risultato non voluto è davvero alto. Non a caso già da anni anche l’istituto di ricerca britannico sulle relazioni internazionali Chatham House mette in guardia da possibili incidenti o escalation nucleari non volute sottolineando come in vari casi negli ultimi decenni “decisioni individuali, spesso in disobbedienza al protocollo e alla guida politica” hanno impedito il lancio di testate nucleari. 

GLI INCIDENTI EVITATI 

Dagli anni ’60 del secolo scorso almeno una decina sono state le occasioni in cui in cui il lancio di armi nucleari su larga scala è stato quasi innescato: malfunzionamenti tecnici o guasti nelle comunicazioni hanno causato falsi allarmi, sia negli Stati Uniti che in Russia, con il disastro evitato solo grazie al sangue freddo di chi ha scommesso che l’allarme fosse causato da un guasto e non da un attacco vero e proprio. Il rischio è inoltre sempre più in aumento, non solo per la presenza di nuovi tipi di testate e le instabilità politiche connesse ad alcuni Paesi nucleari (si pensi alla Corea del Nord, o al conflitto tra India e Pakistan e ovviamente alla recentissima politica aggressiva di Putin…) ma per le stesse infrastrutture tecnologiche di comando e controllo delle armi. Che in alcuni casi sono obsolete ed in altri possono ora subire attacchi di natura informatica. 

Sempre Chatham House ha sottolineato: “Le vulnerabilità informatiche nei sistemi e delle strutture delle armi nucleari presentano una serie di pericoli: nel migliore dei casi, l’insicurezza informatica nei sistemi di armi nucleari va a minare la fiducia nelle capacità militari e nell’infrastruttura delle armi nucleari. Nel peggiore dei casi, i cyberattacchi potrebbero portare a una disinformazione deliberata e al lancio involontario di armi nucleari. In tempi di crisi, la perdita di fiducia nelle capacità delle armi nucleari potrebbe influenzare il processo decisionale” connesso. 

Per troppo tempo i decisori politici hanno sviluppato le loro politiche e strategie sulla base di parametri razionali, portando alla creazione di politiche e dottrine nucleari (come la distruzione reciproca assicurata e la deterrenza nucleare più in generale) basate principalmente sul presupposto che le decisioni saranno razionali, cosa che però non è detto che avvenga sempre. Come se ne può uscire? Con percorsi di disarmo nucleare che ricostruiscano una fiducia tra i Paesi e rafforzino delle politiche cooperative e non di confronto muscolare. «La sicurezza nazionale può essere una questione di primaria importanza, ma che significato può avere dipendere costantemente dalle armi nucleari, che sono in grado di causare danni così devastanti sia al Paese avversario sia al proprio, fino a minacciare irrimediabilmente la sopravvivenza stessa del genere umano?» ragiona Daniele Santi presidente di Senzatomica, tra le organizzazioni parte della campagna internazionale Ican che ha ottenuto il Trattato Tpnw di proibizione delle armi nucleari «Il significato del Tpnw va oltre il quadro di un trattato per il disarmo convenzionale, in quanto alla base c’è un impegno verso i precetti dell’umanitarismo, cioè impedire una distruzione catastrofica, e per i diritti umani, cioè salvaguardare il diritto alla vita della popolazione mondiale. In termini dei beni comuni globali il Tpnw è indispensabile per proteggere la pace dell’umanità nel suo complesso e preservare l’ecosistema globale che è la base per la vita di questa generazione e di quelle future» aggiunge Santi. 

C’è solo da sperare che questo percorso abbia successo.