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Diciamo no al business della guerra

A Verona sarà rilanciata la campagna promossa da molte realtà della società civile contro lo svuotamento della legge 185 sull’export di armi: «Le modifiche proposte dal governo toglieranno controlli e trasparenza», spiega Francesco Vignarca, portavoce della Rete italiana Pace e disarmo

Una mia intervista per “Mondo e Missione”, a cura di Chiara Zappa.

“Basta favori ai mercanti di armi!”: è eloquente lo slogan della Campagna promossa da una folta rete di realtà della società civile italiana, che verrà rilanciata nel corso di Arena di Pace a Verona. In un momento in cui sono tornati a soffiare minacciosi i venti di guerra e anche l’Europa è intenta a riempire i propri arsenali – mai così forniti dai tempi della Guerra fredda -, al centro della mobilitazione è la modifica, in discussione in Parlamento, della legge 185 del 1990 sull’export di armi.

«Un’ottima norma, molto avanzata per quando fu adottata, che oggi rischia di essere svuotata in alcuni dei suoi aspetti più importanti»: l’allarme arriva da Francesco Vignarca, portavoce della Rete italiana Pace e disarmo, in prima linea nella battaglia per convincere la politica a fare un passo indietro su questo colpo di mano a danno, in primo luogo, della trasparenza e del controllo su un comparto critico del Paese e sui flussi finanziari privati che lo alimentano. «Se il testo del Ddl uscito dal Senato fosse confermato anche alla Camera – denuncia Vignarca -, si farebbe un chiaro favore ai commercianti di armi, che lamentano vincoli eccessivi totalmente smentiti dai dati, visto che l’export militare italiano è in continua crescita».

Per questo un’ottantina di organizzazioni, dalle Acli all’Agesci, da Libera a Banca Etica, dalla Focsiv ad Altromercato fino alla Conferenza degli Istituti missionari italiani, si sono attivate per non rinunciare a uno strumento fondamentale di protagonismo civile: le pressioni che negli scorsi anni avevano spinto il Parlamento a bloccare l’invio di bombe e missili ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che li usavano nella guerra in Yemen, si basavano proprio sui meccanismi previsti dalla legge 185.

Perché questa norma è importante?

«Perché ha fissato per la prima volta una serie di regole che legano il commercio di armi non solo agli interessi e alla politica estera del nostro Paese, ma anche ad alcuni principi di civiltà. Inoltre, ha stabilito la necessità della trasparenza del settore. La 185 si è così trasformata  in un modello per le successive normative sovranazionali, come la Posizione comune adottata nel 2008 dal Consiglio dell’Unione Europea e il Trattato sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty, Att) delle Nazioni Unite, in vigore dal 2014. Purtroppo, già due modifiche nel corso degli anni avevano reso meno efficace la legge, che evidentemente dava fastidio a qualcuno. Oggi, il Ddl in discussione rischia di portare al suo svuotamento definitivo».

Quali sono i punti più critici?

«Da una parte, il testo peggiora i meccanismi di autorizzazione degli invii di armamenti: facendo assumere il compito di “applicare divieti” di esportazione al nuovo Comitato interministeriale (Cisd), si sottopone la decisione a un giudizio prettamente politico, ma questa responsabilità dovrebbe sempre essere bilanciata anche da un’istanza amministrativa che possa intervenire con competenze tecniche specifiche e con la necessaria tempestività in caso di emergenze internazionali, come nel caso della guerra scoppiata in Medio Oriente dopo il 7 ottobre. Si punta ad alleggerire i controlli con l’intento di favorire il business dell’industria militare italiana, che tuttavia gode già di ottima salute: secondo i dati del Sipri, nell’ultimo quinquennio il nostro export di armi è aumentato dell’86%. Non solo. Il Ddl assesterebbe poi il colpo finale alla trasparenza sui finanziamenti al comparto bellico: tra le modifiche approvate al Senato spicca l’eliminazione della lista delle cosiddette “banche armate”, uno strumento che, seppur con molti limiti, da decenni consente al Parlamento e ai cittadini di sapere quali istituti di credito finanziano la produzione e l’export di armi e per quali importi».

Un notevole passo indietro…

«Senz’altro, perché priverebbe i correntisti di informazioni fondamentali per esercitare il proprio diritto a compiere scelte consapevoli e a fare pressione su chi gestisce il loro denaro. Un dietrofront in contraddizione con gli indirizzi più recenti dell’Unione Europea, le cui normative impongono alle banche di rendere noti i settori che finanziano e i loro impatti sociali e ambientali. Sempre in tema di trasparenza, poi, non sarà più richiesto che l’annuale Relazione del governo al Parlamento contenga “indicazioni analitiche” sull’export di armi, ma solo i Paesi di destinazione con il loro ammontare suddiviso per tipologia di equipaggiamenti, le imprese autorizzate e l’elenco degli accordi da Stato a Stato. Cioè non conosceremo più il tipo di materiali militari inviati ai vari Paesi».

In sede di dibattito al Senato, la vostra rete aveva portato avanti anche altre proposte che sono poi state ignorate dal governo: di che cosa si tratta?

«Oltre a dati più completi e leggibili nella Relazione annuale al Parlamento, chiedevamo che fosse preservata la possibilità per il Cisd di ricevere informazioni da parte delle ong in merito alla situazione dei diritti umani nei diversi Paesi, e che fosse mantenuto l’Ufficio presso la Presidenza del Consiglio autorizzato a proporre progetti di riconversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa. Soprattutto, consideriamo essenziale inserire nel testo un richiamo esplicito al Trattato sul commercio delle armi, che prevede vincoli ancora più stringenti di quelli previsti nell’attuale legge 185. Per esempio, stabilisce che non si possano esportare armi nei Paesi in cui ci sia un rischio di violazioni dei diritti, senza la necessità che gli abusi siano accertati».

Che cosa vi proponete quindi con la Campagna in corso?

«Vogliamo rendere noto all’opinione pubblica ciò che sta succedendo e aumentare la pressione verso la politica, richiamando i rischi di esportazioni irresponsabili di armi, che alimentano guerre e insicurezza. In questo senso abbiamo lanciato un petizione che i cittadini possono sottoscrivere (info su www.retepacedisarmo.org) e proponiamo ad associazioni, parrocchie, enti locali di aderire alle nostre richieste, anche sensibilizzando politici e amministratori locali. Il nostro obiettivo è introdurre alla Camera gli emendamenti che non sono passati al Senato, che poi dovrebbe a sua volta riesaminare il testo».

Quali sono i contesti del mondo in cui le importazioni di armi sono in crescita?

«I Paesi che acquistano più armi appartengono all’area del Sud-Est asiatico e alla zona Medio Oriente e Nord Africa, destinataria anche del nostro export. Questo perché, tra l’altro, lì non esiste una massiccia produzione locale, mentre Stati Uniti, Cina e la stessa Europa si forniscono internamente. Tuttavia, di recente, anche il nostro Continente ha ripreso ad acquistare armamenti dall’estero, in particolare dagli Usa, visto che la domanda, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, si è impennata rapidamente».

Questa corsa al riarmo in Europa è giustificata con la necessità di maggiore sicurezza…

«Sì: si afferma che bisogna adeguarsi a un mondo sempre più in conflitto, ma i dati dimostrano che è esattamente il contrario. Anche perché si innesca un circolo vizioso nel quale tutti si armano sempre un po’ di più, con il risultato di aumentare i rischi di escalation. La retorica dello scontro di civiltà, diffusasi dopo l’11 settembre 2001, ha portato ad abbandonare la dottrina del disarmo perseguita negli Anni 90. Ma oggi abbiamo raggiunto il numero di vittime civili nei conflitti globali più alto dai tempi del genocidio in Ruanda, esattamente trent’anni fa. Viviamo in un mondo più insicuro per tutti, ed è ora di correre ai ripari».