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C’era una volta l’Europa. Per la prima volta, il riarmo entra a far parte del dibattito nella campagna per le prossime elezioni europee. Una mia intervista per Ossigeno, a cura di Paolo Cosseddu

 

“All’armi siamo europei”, il tema risuona nelle anticipazioni della campagna elettorale per le ormai prossime elezioni europee, a due anni dall’inizio della guerra in Ucraina che si consuma alle porte del continente e nel bel mezzo di crisi internazionali sempre nuove, dall’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre alla risposta criminale di Israele, fino alle tensioni nel Mar Rosso. Si finge di dimenticarlo, ma l’Unione nasce innanzitutto come progetto di pace, fra Paesi che si sono lungamente avversati fino al più tragico conflitto, quello della Seconda guerra mondiale, dopo il quale sembrava saggio mettere agli atti soprattutto un punto: mai più. E saggio lo era per davvero, tanto che viene da chiedersi se si rendano conto di quali pericoli riaccendono, quelli che oggi parlano con facilità di guerra e di armi. Eppure, a questo siamo, in un modo sorprendentemente esplicito, peraltro, e per questo abbiamo voluto parlarne con Francesco Vignarca, esponente di primo piano del pacifismo italiano e coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo. Con lui abbiamo provato a ricoprire il ruolo dell’avvocato del diavolo, sottoponendogli cioè tutti gli argomenti bellicisti che risuonano nei dibattiti da un po’ di tempo in qua, senza che però sia mai dato il giusto spazio al tipo di risposte articolate e non sloganistiche che vorremmo sentire.

 

Per la prima volta da molto tempo, uno degli argomenti della campagna elettorale di queste elezioni europee è il riarmo. Dobbiamo essere in grado di difenderci dalle minacce che incombono, dicono.

In realtà, dinamiche legate alla spesa militare se ne sono viste anche in precedenza, penso ad esempio alla guerra al terrorismo, o alla riorganizzazione della Nato come nuovo tipo di alleanza militare dopo gli anni Dieci. Che però l’argomento entri nel dibattito europeo deriva dal fatto che per la prima volta si sono creati contesti specifici riguardanti la militarizzazione dell’Unione, la quale fino a questo momento era un’isola felice, se così vogliamo definirla, anche per via di trattati che, per volontà degli Stati membri, escludevano esplicitamente il tema della difesa. Noi da almeno sei o sette anni denunciamo il modo surrettizio con cui si sono fatti passare per interventi di natura industriale o addirittura infrastrutturale quelli che in effetti avevano fini militari. È stato l’inizio di un cambio di atteggiamento che poi è esploso con la guerra in Ucraina. Per la prima volta nel bilancio europeo sono stati destinati fondi, circa sette miliardi, per la ricerca di nuovi sistemi d’arma, e questo è stato possibile, ovviamente, per la presenza dei vari focolai di conflitto, ma soprattutto perché nel frattempo è stato compiuto un lavoro che ha contribuito a sdoganare il tema, in senso sia politico che strutturale. Ed ecco com’è, venendo all’oggi, che ci troviamo il tema direttamente tra quelli della campagna elettorale. Ma ripeto, non si tratta soltanto di guardare al contesto internazionale: solo facendo riferimento agli ultimi decenni, c’è stato l’Iraq, c’è stato l’Afghanistan, insomma non mancavano i conflitti, così come non mancano ora. La differenza è che, rispetto ad allora, oggi l’Europa ha fondi e strutture che vanno a incidere direttamente sulla produzione di armamenti. Il problema è che la questione torna sul tavolo, ma nella maniera sbagliata: non viene aperta una discussione sulla difesa comune, e di conseguenza sulla politica estera comune, ovvero sugli elementi che erano stati lasciati fuori dalle competenze dell’Unione. Si fa il contrario, si prescinde da una scelta politica, e anche dai meccanismi decisionali dei singoli Paesi, che continuano ad andare ognuno per conto proprio, e si parte dal fondo, dagli investimenti in spesa militare: per esempio, si investe nella produzione di munizioni, che poi magari vengono esportate fuori dal continente. Noi non siamo avulsi da una discussione seria sul ruolo che può avere l’Europa anche dal punto di vista della politica estera, purché si vada in ordine e non si parta dal fondo.

Per la prima volta nel bilancio europeo sono stati destinati fondi, CIRCA SETTE MILIARDI, per la ricerca di nuovi sistemi d’arma

 

C’è una vecchia battuta americana che recita così, più o meno: gli europei hanno uno Stato sociale migliore del nostro perché il conto della difesa lo paghiamo noi.

Intanto, non possiamo ragionare con le stesse categorie di prima del 1989, e quindi bisognerebbe capire di cosa stiamo parlando e da chi dovremmo difenderci. E poi ribalterei il ragionamento: gli Stati Uniti hanno un’economia migliore della nostra, e si è visto in questo ultimo paio d’anni, ci possono imporre decisioni che vanno a loro vantaggio e di conseguenza ci impongono la loro difesa. Siamo sicuri che siano un costo per loro tutte le basi che hanno in Europa, che significano anche forme di controllo del territorio e delle politiche locali? È un costo per loro che ci siano accordi segreti, anche a dispetto di altri trattati, che obbligano Paesi europei, tra i quali l’Italia, ad avere armi nucleari sul proprio territorio? Il costo della difesa così concepita non è come una colletta tra amici, in cui invece di dividere alla romana facciamo pagare tutto agli americani ma poi le decisioni vengono prese collettivamente. No, nel costo di questo tipo di difesa bisogna anche mettere in conto una guida statunitense – come direbbero alcuni, di imperialismo. Inoltre, a proposito di tutte le spese in armamenti di cui abbiamo letto negli ultimi due anni, in che tasche vanno a finire? Be’, in quelle dell’industria militare americana. Questa cosa che loro pagano di più, questo piagnisteo, fa un po’ ridere: pagano di più perché basano la loro proiezione di potenza e la posizione in base alla quale ancora effettivamente dominano il mondo sulla spesa militare. Ma non certo mettendosi al servizio di interessi collettivi, bensì utilizzando quella posizione per difendere i propri interessi. Il che è legittimo, ma non vengano poi a lamentarsi che stanno pagando per tutti.

 

A proposito di minacce: Trump ha detto durante la sua campagna per le primarie, ma lo aveva già spiegato anche a Ursula von der Leyen, che se l’Europa o i suoi membri venissero attaccati, e lui fosse di nuovo in carica, non verrebbe in nostro aiuto.

Intanto, va premesso che non stiamo parlando di 27 Paesi che non hanno un esercito, ma di nazioni che anzi hanno una forza militare complessiva pari a quella della Cina, che comprendono un Paese nucleare come la Francia e altri che comunque ospitano testate sul loro territorio. Dipingerci come se fossimo Gandhi è insensato. Detto questo, se si vuole fare un ragionamento sul fatto che avere 27 eserciti e 27 difese è ridondante, è problematico, non garantisce sicurezza in modo efficace, allora ritorniamo alla questione iniziale: se l’Europa ritiene di dover diventare anche un provider di sicurezza militare, o comunque un attore militare di un certo peso, discutiamone, partendo però da quali sono le motivazioni politiche, ma a quel punto slegandoci dagli Stati Uniti. Non si può continuare a giocare su due tavoli, dire che ci vuole una difesa europea e però al tempo stesso il pilastro principale di questa nostra difesa è la Nato, perché a quel punto non è più nel nostro stesso interesse. Se scegli di avere un’Europa che ha anche un ruolo militare, allora non puoi più essere una succursale della Nato, proprio perché può capitare che arrivi un presidente tipo Trump che decide di disimpegnarsi, e a quel punto non ha più senso farvi parte. Il che fa capire, peraltro, come la stessa Nato sia stata uno strumento di egemonia più che uno strumento di difesa. Oppure, al contrario, decidiamo di restare dentro un’alleanza di questo tipo, che comporta una gerarchia non scritta ma reale, e in quel caso si accetta pure un rischio come quello minacciato da Trump. L’impressione fortissima, però, è che questi argomenti vengano usati in modo strumentale solo per arrivare alla conclusione che quindi abbiamo bisogno di spendere più soldi in armi. Lo vediamo molto chiaramente nelle discussioni riguardanti lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma: prima dovevamo fare l’EuroFighter perché avevamo bisogno di un caccia europeo, poi dopo pochi anni ci hanno detto che invece ci volevano gli F35 per ragioni di interoperabilità e capacità nucleare nella Nato, poi l’Italia si inserisce nel progetto del nuovo Tempest con la Gran Bretagna, che peraltro non è più in Europa, e con il Giappone che ovviamente non c’è mai stato. Ci vuole un minimo di coerenza, si scelga una strada ma poi la si percorra di conseguenza.

Non si può dire che CI VUOLE UNA DIFESA EUROPEA e però al tempo stesso IL PILASTRO PRINCIPALE di questa nostra difesa È LA NATO

 

Altro argomento attualissimo: c’è una superpotenza, la Russia, guidata da un tiranno, Putin, che mira a destabilizzare l’Europa, in realtà già da tempo con accordi vari e l’uso di un potere più o meno soft, ma oggi con azioni molto più preoccupanti. Più esponenti di governi europei hanno detto, in questi mesi, “prepariamoci a una guerra con i russi da qui a dieci anni”.

Sono d’accordo che si tratta di dinamiche a cui bisogna stare attenti, ma penso anche che si contrastino in altro modo. Quando si prospetta un pericolo imminente, tendenzialmente ci si attrezza per affrontare quello, e non un altro ipotetico che potrebbe presentarsi in futuro. Se si rompe un tubo in casa si chiama l’idraulico, non si chiama l’elettricista perché di lì a cinque anni potrebbe saltare l’impianto elettrico. Fuor di metafora, se è vero che da tempo sappiamo che ci sono operazioni di destabilizzazione delle democrazie, allora bisognerebbe pensare a come contrastarle, e non a un possibile conflitto che potrebbe scoppiare tra dieci o vent’anni. Se vogliamo difendere la democrazia, bisogna promuovere meccanismi democratici, altrimenti stiamo solo facendo della retorica. Se autorizziamo risposte che non sono democratiche, o che violano i principi della difesa dei diritti, allora non ci possiamo poi stupire se i risultati non sono quelli sperati. Guardiamo ai Paesi del Sud del mondo, che sono poi un po’ l’ago della bilancia degli equilibri internazionali: sono tutti allarmati per lo strapotere della Cina in Africa o per la presa della Russia nel Sahel. Sono Paesi che noi abbiamo sfruttato, in cui abbiamo decimato le popolazioni e abbiamo sostenuto i peggiori aguzzini perché ci facevano comodo: a un certo punto si rivolgono altrove perché magari ottengono qualcosa di più o anche solo per il fatto che non si devono anche sentir fare la lezioncina. C’è quella storiella del funzionario africano che racconta: «Quando arriva un cinese porta i soldi, quando arriva un europeo porta i fogli del discorso con cui ci farà la morale, e a questo punto preferisco quello che arriva con i soldi». Che sarà pure un discorso cinico, ma non per questo è meno vero. Per tornare alla domanda, io credo che se vogliamo contrastare Putin dobbiamo contrastare quel modello, e sarò polemico ma mi fa ridere che queste considerazioni sul “pericolo Putin” vengano da coloro che per decenni hanno fatto affari con lui, e che quando noi segnalavamo che si stava riarmando facevano accordi che gli hanno garantito i flussi di miliardi che gli hanno permesso quel riarmo. Penso inoltre che continuare a evocare un futuro conflitto con la Russia sia un modo per alzare l’asticella della minaccia e continuare a portare a casa sempre più fondi per la spesa militare. Sarà banale dirlo, ma se pensiamo che entro vent’anni potrebbe esserci un conflitto, non dovremmo darlo per scontato, anzi, dovremmo piuttosto cercare il modo per evitarlo. Peraltro, è molto difficile pensare che la Russia possa costituire una minaccia per la Nato: dopotutto, sta facendo fatica con l’Ucraina, contro un esercito che sicuramente ha avuto rifornimenti dalla Nato, ma che di certo non ha le sue stesse capacità di dispiegamento.

Mi fa ridere che queste considerazioni sul “pericolo Putin” vengano da coloro che PER DECENNI HANNO FATTO AFFARI CON LUI

Per chiarire, io ovviamente ritengo che Putin sia pericoloso, innanzitutto per il suo popolo. Ma è pericoloso perché vuole attaccarci? Io non credo, lo è invece perché ha legato la nostra economia al consumo di fonti fossili, lo è perché ha un’influenza diretta, ma il modo per contrastare lui e quello che rappresenta è per forza quello di armarci fino ai denti, peraltro causandoci problemi interni ed economici ulteriori? È quello di dargli l’occasione di dire che siamo noi ad armarci, e siamo noi a minacciarlo, ricompattando così il suo popolo e mettendo ancora di più ai margini il dissenso? È quello di dare argomenti a chi alimenta la retorica della patria e del nazionalismo? Non si tratta di sottostimare le sue intenzioni, ma al contrario di trovare le risposte più efficaci, senza banalizzazioni.

 

Usciamo infine dal giochino del dibattito cosiddetto bellicista con una domanda seria. In questo dibattito, per come è impostato, in questo parlare di riarmo anche nucleare (si legge di un piano per riportare, dopo molto tempo, testate americane in Gran Bretagna), in questo profluvio di dichiarazioni di esponenti di governi nazionali, fatte con molta meno cautela rispetto al passato, quanto c’è di interessato? E quanto, invece, deriva da uno spostamento della politica, sia verso posizioni più di destra sia verso un ritorno alla fascinazione per l’autoritarismo, alla vecchia questione sull’avere più sicurezza in cambio di meno libertà?

Questa è una tendenza che si vede chiaramente. Pensiamo a una questione che è emersa in questi ultimi mesi, quella delle missioni nel Mar Rosso, che si volevano decidere senza passaggio parlamentare salvo che, quando poi si è capito che invece non si poteva, il governo ha preparato un disegno di legge per cambiare le regole sulle missioni militari. È grave. Indipendentemente dal fatto che si possa essere d’accordo o no con questa missione, un passaggio in Parlamento, in una democrazia, per una decisione così importante e così grave, è troppo importante. Non stiamo parlando di un automatismo, stiamo parlando di mandare soldati e mezzi italiani nel contesto in questo momento più esplosivo sul pianeta. Quindi sì, c’è assolutamente questa tendenza a voler andare verso la decisionalità, l’uomo forte, il leaderismo spinto, un modello culturale che ha preso piede in questi ultimi anni e che però si manifesta anche negli aspetti più ordinari della vita delle persone: basti pensare al fatto che usiamo i soldati italiani per le “strade sicure”, un’emergenza che doveva durare pochi mesi e che invece prosegue da 12 anni. Il concetto stesso di impiegare l’esercito per operazioni di normale polizia è problematico, richiama visioni e immagini da dittatura americana, non ha senso anche solo perché quelli non sono i compiti di un soldato.

C’è una tendenza a voler andare verso LA DECISIONALITÀ, L’UOMO FORTE, IL LEADERISMO SPINTO

Guardiamo lo scivolamento in corso nella retorica riguardante il nucleare: stiamo parlando di qualcosa che può cancellare la specie umana, se non per volontà anche per un errore umano, e non solo noi sappiamo che purtroppo gli errori capitano, ma abbiamo corso più volte questo rischio nel corso dei decenni. Non ce lo possiamo permettere, e peraltro non siamo più nella stessa situazione in cui eravamo durante la Guerra fredda, che certo non va rimpianta ma che almeno prevedeva controlli molto rigidi, c’era una politica che si confrontava aspramente ma che cercava di non alimentare questo tipo di rischio. Oggi invece siamo di fronte a una situazione politica estremamente decostruita, in cui per esempio un ministro israeliano può permettersi di dire che va buttata un’atomica su Gaza: questo non sarebbe mai potuto accadere quarant’anni fa. Tempo fa qualcuno ha detto che la situazione con gli arsenali nucleari era come galleggiare sopra a un mare di petrolio tenendo in mano un cerino acceso: il problema adesso è che chi ha in mano quel cerino ha il delirium tremens o è ubriaco, e questo è il motivo per cui invece si dovrebbe andare verso una de-escalation preventiva. Non solo non esiste più il cosiddetto telefono rosso, quello che nelle emergenze consentiva a due parti di parlarsi per evitare la catastrofe, ma non c’è più nemmeno una politica capace di basarsi non dico su quello che succede fra tre giorni, ma nemmeno domani, con le decisioni che vengono prese sulla base della polemica social del momento. È una follia, ma è una retorica facile, che porta vantaggi immediati, crea consenso, solletica certi istinti. In questa dinamica, per assurdo si avvantaggiano i regimi, che ragionano solo in termini pragmatici, basandosi sul loro mero interesse, senza fingere altre motivazioni. Mentre invece noi, che viviamo una libertà forse imperfetta ma comunque preziosa, ci facciamo irretire senza renderci conto delle conseguenze.

Tempo fa qualcuno ha detto che la situazione con gli arsenali nucleari era come GALLEGGIARE SOPRA A UN MARE DI PETROLIO tenendo in mano un cerino acceso

 

Un’ultima osservazione: per quanto questi argomenti siano molto discussi, questo genere di posizioni e di analisi non escono mai, nel dibattito pubblico, e sui media in generale.

Ma certo che no: perché si sono inventati uno come Orsini? Io con Orsini ci facevo i dibattiti anni fa e certamente non è un pacifista, anzi. Sbugiardare uno come lui è facile, è il bersaglio perfetto, dice cose assurde e quindi è l’ideale per mettere in evidenza le tesi opposte alle sue. È anche il segno del mutamento di cui abbiamo parlato: noi come Rete Pace Disarmo una volta avevamo, ogni tanto, la possibilità di dire la nostra su Repubblica, sulla Stampa, sul Corriere, adesso semplicemente è impossibile. Prima almeno i dati ce li pubblicavano, adesso nemmeno quelli, perché alle nostre posizioni, che ovviamente sono contestabili, si dovrebbe rispondere con un ragionamento e non con soli slogan, ed è molto più facile andare avanti così.

Alle nostre posizioni, che ovviamente sono contestabili, si dovrebbe rispondere con UN RAGIONAMENTO E NON CON SOLI SLOGAN