Francesco Vignarca si occupa da più di venti anni di pace e disarmo oltre che di politiche nonviolente: dal 2004 e fino al settembre 2021 è stato coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo per poi diventare il Coordinatore delle Campagne nella Rete Italiana Pace e Disarmo. Nel 2020 ha ricevuto il Premio Nazionale Nonviolenza 2020 insieme a Sergio Bassoli. Con lui vogliamo riflettere sulla vitalità del pacifismo italiano; intervista per VDossier (il web magazine del volontariato).
Francesco Vignarca, in tutto il mondo le guerre si moltiplicano, continuano a nascere e non finiscono. Le persone le seguono più o meno in diretta, ma sembrano più indifferenti e assuefatte rispetto al passato. E’ così?
Non so se ci sia o meno un’assuefazione al fatto che le guerre scoppiano per il mondo e sembrano non finire mai. Di sicuro l’accesso maggiore alle informazioni a un certo punto può anche portare all’idea che non ci sia nulla da fare. Prima era probabilmente più difficile capire cosa succedesse nel mondo: con guerre, ma anche carestie e disastri naturali, c’era una reazione più emozionale, più diretta, più pronta a mobilitarsi. Dipende anche dal modo con cui si raccontano conflitti che vengono spesso presentato solo come questioni geostrategiche, geopolitiche, come rapporti di forza, quasi come un gioco militare e di armamenti. Non valorizzando il punto centrale: l’impatto sulle vittime, sulle popolazioni e quindi la necessità di attivarsi anche consapevoli delle responsabilità del nostro Paese, delle nostre industrie e delle nostre scelte politiche. Credo che davvero sia importante ragionare su un’informazione che non dia solo notizie, ma anche chiavi di lettura e sia capace di far capire che c’è la possibilità di reagire in maniera diversa e che le guerre e i conflitti non sono qualcosa di ineluttabile.
La spesa pubblica e il commercio di armamenti non diminuiscono, siamo di fronte ad un grande riarmo globale (ammesso che ci sia mai stato un cammino verso il disarmo)?
Sicuramente l’aumento della spesa militare e risorse per le armi e le guerre è altissimo. Ma credo che non si debba parlare di riarmo, perché è una parola che presuppone il fatto che a un certo punto ci si sia disarmati. Non è così: le spese militari sono raddoppiate dall’inizio del secolo fino a questi anni. Anche prima dell’impatto delle nuove scelte derivate dall’invasione russa in Ucraina, dalla situazione di Gaza o altri contesti. Questo ci fa capire anche che l’armarsi o continuare a farlo per portare sicurezza è una falsa equazione, un luogo comune che non funziona. Già il mondo si è armato in maniera eccessiva, eppure il mondo non è più sicuro e si tende a risolvere i conflitti con l’atto militare. Non dobbiamo farci trarre in inganno da quello che i fautori del riarmo vogliono far credere, cioè che siamo costretti a spendere in armi più che nel sociale perché è l’unico modo per essere sicuri. Non è così: spendere in armi è l’unico modo per essere insicuri.
L’Italia ha una potente tradizione di pacifismo militante e espressivo. La storia politica e sociale è caratterizzata da forti mobilitazioni che anche a livello politico hanno influenzato le scelte internazionali. Il pacifismo ha ancora voce ed è ascoltato?
La situazione italiana è un unicum: per storia, tradizione e cultura abbiamo un movimento pacifista molto forte, visibile e capace di organizzarsi. Questo lo vediamo in maniera evidente nei collegamenti con le campagne e le reti internazionali di cui facciamo parte. Tutti sono stupiti non solo della capacità di mobilitazione e di coinvolgimento, ma anche della qualità dell’impatto nel discorso pubblico. Tutti i sondaggi dimostrano che c’è un’alta propensione alla diminuzione delle spese militari, aderire al trattato contro le armi nucleari e non solo. Per tanto tempo il pacifismo italiano si è basato solo sulla capacità di portare tanta gente in piazza, ma mancava dell’elaborazione di un’alternativa. Non basta essere tanti nelle piazze se non si riesca a tradurre in azioni che cambiano le decisioni politiche.
Riuscite a farlo? A incidere sulle scelte politiche?
Sì ci riusciamo e considero il movimento pacifista italiano ai suoi massimi di capacità. Magari non si vede perché manca la trasmissione diretta politica che c’era una volta, ma forse è meglio così: non si deve avere per forza dei pacifisti in parlamento, ma siamo stati negli ultimi anni in grado di ridurre il numero degli F35, fermare le bombe verso l’Arabia Saudita, difendere le leggi contro l’export di armi, tutto pur nella difficoltà. Credo ci sia un grosso errore da parte del giornalismo e dei media che dipingono queste cose come residuali, la voce del pacifismo viene distorta, mal riportata o ignorata perché si vuole far passare un automatismo del riarmo. Di conseguenza sembra che il movimento pacifista sia sterile nelle sue azioni e nelle lotte, ma non è così. Tutto quello che siamo capaci di fare non viene fatto vedere. C’è una volontà specifica di silenziare le voci pacifiste e lo si fa solo se si ha paura delle alternative e delle proposte che portiamo avanti.
In che modo si esprime e quali forme inedite e funzionali assume?
C’è sempre modo di bloccare una guerra prima che scoppi o di fermarla. Non dobbiamo arrenderci all’idea che la guerra sia ineluttabile. Fermare le guerre non sono scelte che arrivano solo all’ultimo. Dobbiamo cogliere il fatto che la guerra è un sistema: di armamento, di interessi, che spinge le conflittualità verso una strada di violenza a distruzione. Noi dobbiamo invece spingere su una strada di cooperazione, di negoziato, di comprensione del fatto che c’è una strada in più che può essere valida per tutti e che la pace la fanno i popoli. Pace e guerra non dipendono solo dalle scelte dei governi, se questa è l’idea non c’è mai una soluzione e la possibilità di arrivare a quella convivialità delle differenze che Don Tonino Bello descriveva come la vera cifra della pace. A noi interessa che le persone che vogliono vivere in pace stiano in pace. Non dobbiamo arrenderci all’idea che tanto non cambierà mai niente. Questo spesso blocca i giovani perché è stato sempre detto che ‘tanto non cambierà mai niente’. Non è così. Alex Langer diceva che la nonviolenza è molto potente per evitare le guerre e per ricomporre le situazioni dopo le guerre. La nonviolenza porta sulla strada di una pace positiva, l’unica che dobbiamo volere.
Le guerre sono sempre ingiuste, crudeli e ingiustificate. Dal tuo punto di vista c’è ancora modo di fermarle e condizionare le scelte dei governi che le fanno?
Sono tante le cose che il pacifismo e il movimento per la non violenza e il disarmo stanno facendo. Sottolineo tre aspetti. Il primo è che non c’è solo la richiesta generica di pace, ma la declinazione di una pace che sia davvero descritta come positiva e il risultato di una sicurezza condivisa e comune. C’è la consapevolezza che se la guerra è un sistema globale, la pace deve essere un sistema globale. Secondo: la connessione internazionale. La pace non si fa solo in Italia e non dobbiamo guardare solo il nostro orticello. Tutte le azioni che facciamo le inseriamo in un contesto globale di campagne, iniziative e collegamenti. O si ragiona su un doppio livello o non arriveremo a nessuna soluzione. È il tentativo di tradurre davvero nel reale la frase attribuita a Gandhi ‘pensa globalmente, agisci localmente’. Il terzo elemento è che nelle nostre campagne riusciamo ad essere iper-tecnici, entrando nel merito ad esempio nelle difese delle leggi o nella diffusione di dati, ma tutto questo è inserito anche in un tema di alternativa e di altra visione. Come la campagna sulla difesa civile non armata e non violenta – la rilanceremo in autunno – che mostra anche l’alternativa e come si può difendere l’Europa e il nostro paese con un’alternativa non violenta e con una scelta di servizio civile collegata all’interno dei corpi civili di pace. Le situazioni si risolvono solo se c’è una pace preparatoria: finché la pace non si prepara non si può ottenere.
Da quali richieste e rivendicazioni è caratterizzato il pacifismo oggi in Italia? Cosa fare per rafforzarne la voce?
Dobbiamo continuare a lavorare in questo senso e a far capire alle persone che c’è una risposta seria, cercare di spingere i media a raccontare meglio ciò che facciamo e dare esempi pratici. Comunichiamo già bene, ma non possiamo farci niente se i grandi media ci silenziano volontariamente. È una questione di scelta di fondo. Dobbiamo ancora una volta partire dal basso, connettendo le persone e le iniziative. Sono vent’anni che lavoro in questo ambito e la cosa più bella che ho visto negli ultimi tre anni in cui la guerra è tornata nelle prime pagine è la voglia di agire nei territori: sono rinati coordinamenti cittadini, iniziative per la pace, c’è un movimento di solidarietà e persone che si vogliono mettere in pista per rilanciare le campagne. Questa è una cosa incredibile che fa capire che le persone hanno colto la necessità di attivarsi. Possiamo dare loro strumenti e non farle sentire sole, ma parte di un movimento nazionale e internazionale che va in questa direzione. Questa è la strada per rendere ancora più efficace e di valore il movimento per la pace italiano.