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Quanto costa la guerra all’ambiente?

L’agente arancio in Vietnam, la contaminazione da macerie all’amianto, le mine in Ucraina, la proliferazione degli arsenali: forze armate e strutture militari sono responsabili del 5,5 per centodelle emissioni globali di gas serra. Un ecocidio senza fine.

Su “Esquire” con alcune mie considerazioni in questo articoli di Ferdinando Cotugno.

Anche se oggi la parola ecocidio – l’omicidio dell’ambiente in cui viviamo – viene usata anche per diverse forme di inquinamento ecologico e climatico su vasta scala che non derivano da operazioni militari, vale la pena tornare alle sue origini: una guerra, il Vietnam, e un’arma, l’agente arancio usato dall’esercito degli StatiUniti per defoliare la giungla tropicale del sud-est asiatico. In dieci anni furono gettati 76 mila metri cubi di erbicida su 22mila chilometri quadrati di foreste, provocando danni permanenti a quasi cinque milioni di persone. È per trovare un lessico a questo tipo di distruzione ecologica che si iniziò a parlare di ecocidio, un crimine che è in corso di riconoscimento alla Corte penale internazionale, al fianco del genocidio o dei crimini di guerra. Al di là dell’esito di questa battaglia legale, il punto è un altro. Come spiega Francesco Vignarca, il portavoce della Rete Pace e Disarmo, “i danni ambientali non conoscono armistizi e proseguono anche quando è stato deciso il cessate il fuoco“.

La contaminazione ambientale è l’eredità più lunga e duratura di ogni guerra. Per bonificare l’Ucraina da mine, ordigni inesplosi, veleni nelle acque e nei suoli serviranno 34 miliardi di euro. Secondo l’UNEP i due anni di massacro a Gaza hanno trasformato l’area da fertile a deserto, con il 97 per cento delle falde idriche contaminato. È per questo che oggi il movimento pacifista parla di disarmo ambientale e climatico, l’evoluzione di quello strategico dell’epoca della non proliferazione nucleare e di quello umanitario, “per affrontare la più grande minaccia collettiva che l’umanità abbiadi fronte a sé: il riscaldamento globale”. È un modo per tornare alle battaglie di uno dei padri dell’ambientalismo europeo, Alexander Langer, che parlava di eco pacifismo, perché il pacifismo non può esistere senza ecologia e l’ecologia non ha senso se non inquadra anche i conflitti. “Non solo i conflitti impattano sul clima, ma la crisi climatica aumenta i conflitti, la sofferenza, la pressione sulle popolazioni”, spiega Vignarca.

Inoltre, gli effetti stessi del riscaldamento globale possono diventare delle armi di guerra, come successo di recente tra India ePakistan: per rappresaglia all’attentato terroristico in Kashmir di aprile, l’India ha sospeso il trattato che regola le acque del fiume Indo, minacciando di lasciare a secco l’agricoltura pakistana, già in crisi idrica da anni a causa della siccità. Ma la chiave di lettura principale è che nessuna industria al mondo inquina quanto l’industria della guerra. Secondo uno studio di Scientists for Global Responsibility e dell’Osservatorio Conflitti e Ambiente, le forze armate e le strutture militari sono responsabili di circa il 5,5 per cento delle emissioni globali di gas serra, quanto tutto il trasporto aereo e marittimo messi insieme. Eppure la guerra oggi èuno status quo che nemmeno la diplomazia internazionale del clima ha mai trovato il modo di intaccare. Né il Protocollo di Kyoto (1997) né l’Accordo di Parigi (2015) sono riusciti a coprire le emissioni e l’uso di combustibili fossili durante le guerre nelle loro regole di decarbonizzazione. Le nostre economie devono passare all’auto elettrica, alle pale eoliche e ai pannelli solari, ma agli eserciti è concessa licenza di inquinare e aggiungere carbonio in atmosfera come se niente fosse. E non possiamo permettercelo.

Secondo Vignarca, nel corso dei decenni, le armi non sono diventate di per sé più inquinanti, nel loro impatto non c’è stato un cambiamento qualitativo ma quantitativo. Sono la logistica degli eserciti e la scala delle operazioni a essere cambiate: il trasporto militare, le costruzioni, la produzione di armi, è da qui che bisogna partire per capirne l’impatto. Come diceva il generale Omar Bradley“i dilettanti pensano alla strategia, i professionisti alla logistica”. Solo che la logistica della guerra ha un impatto ecologico spaventoso. L’esercito americano è il primo consumatore di petrolio al mondo, il complesso militare-industriale degliUSA, emettendo 280 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, inquina più di 171 Paesi. E poi c’è l’impatto dei combattimenti in sé, oggi aggravato non solo dalle 170 guerre in corso, ma anche dal fatto che sempre più conflitti insistono su aree urbane, da Sarajevo a Gaza passando perKabul e Mosul.

Nelle città l’impatto del conflitto è maggiore non solo per le vittime civili ma anche per il livello di inquinamento, macerie, contaminazione e detriti che i combattimenti producono. Le città sono tutte armi chimiche e biologiche da innescare. “L’Ucraina è uno dei maggiori produttori e utilizzatori di amianto al mondo, la distruzione che si è riversata sulle loro cittàa causa dei bombardamenti russi produrrà inquinamento e danni da amianto che oggi nes-suno è in grado di quantificare”, spiega Matteo Guidotti, ricercatore dei CNR, uno dei massimi esperti della contaminazione chimica prodotta dai conflitti. Perché non c’è solo l’inquinamento da guerre, c’è anche l’avvelenamento chimico delle guerre: il tritolo delle bombe, il mercurio, l’arsenico o il piombo dell’artiglieria, o il clorato di potassio dei missili.

Sono problemi ecologici che riguardano le zone teatro di guerra, ma anche quelle dove c’è un’alta frequenza di esercitazioni militari. “Il tritolo persiste negli ambienti per decenni ed è un fortissimo interferente endocrino”,spiega Guidotti, “ancora oggi nelle zone rosse del nord della Francia, al confine con il Belgio, dove fu combattuta la Prima guerra mondiale, ci sono elevatissime concentrazioni di sostanze inquinanti tossiche”. Cento anni dopo ci sono ancora aree europee dove la tossicità da mercurio e arsenico è così elevata da non permettere che cresca nessun tipo di vegetazione perché le sostanze sono penetrate fino a due metri di profondità nel suolo. “Sono forme di inquinamento cronico, e non acuto, che però rimangono negli ecosistemi per generazioni“. Infine, c’è un ultimo punto di contatto tra ambiente e armi da mettere a fuoco: le guerre del presente, e ancora di più quelle di futuro, non solo faranno aggravare il cambiamento climatico, ma si combatteranno anche in un contesto di cambiamento climatico aggravato, nel quale i civili dovranno allo stesso tempo affrontare l’intensificarsi di siccità, ondate di calore ed eventi meteo estremo e il terrore dei bombardamenti. Un modo in più che dire che l’ecologia è il punto di approdo finale del pacifismo, ma anche una delle sue ragioni più solide.