Un mondo armato è più sicuro? Scuote la testa Francesco Vignarca, anima della Rete Pace e Disarmo, impegnato da anni e anni a contestare la follia delle guerre con dati inoppugnabili. “Russia, Israele, India, Pakistan, tutti paesi con armi nucleari, tutti coinvolti in guerre recenti. Altro che riarmo per assicurare la pace, i fatti dimostrano il contrario. Si giustifica il riarmo con l’instabilità mondiale, ma con il riarmo quell’instabilità è aumentata”.
Mia intervista per Sinistra Sindacale
Ci sono minacce tali da giustificare la decisione della Nato di destinare il 5% del Pil alle armi?
“L’Europa ha scelto il piano Rearm Europe, 800 miliardi di spesa in pochi anni, su input della Nato che ha l’obiettivo del 5% del Pil. Ma non è detto che queste minacce siano reali, già nel 2023 veniva lanciato l’allarme per un prossimo attacco della Russia all’Europa, oggi si continua con questo refrain. Così tutti si stanno armando in previsione di una minaccia paventata. Posto che ci possano essere dei motivi di preoccupazione, nessuno evidenzia che in un mondo sempre più armato le crisi internazionali, invece di diminuire, sono aumentate. E a ben veder i paesi del blocco Nato non stanno a guardare, anzi sono quelli che spendono di più per gli armamenti, assecondando la teoria che più armi vogliono dire più sicurezza. Prima bisognerebbe dimostrare che c’è una minaccia, poi capire chi sta contribuendo alla minaccia e cercare di neutralizzarla. Secondo noi la soluzione non è quella di armarsi con il paradosso della deterrenza, ma lavorare studiando il perché di quella direzione di marcia, e proponendo percorsi di cooperazione per allentare la contrapposizione fra blocchi o tra singoli paesi”.
Le armi hanno gradualmente preso lo spazio che un tempo aveva la diplomazia per risolvere le crisi internazionali. Perché questa tragica involuzione? Colpa dei governi?
“Lo dico molto chiaramente: c’è chi fa finta che la stagione del riarmo sia un evento ineluttabile, atmosferico, meteorologico, astronomico. Un po’ come il fluire delle stagioni. Estate, autunno, inverno e primavera arrivano a prescindere dalla volontà dell’uomo. Così von der Leyen, quando parla di Rearm Europe, sembra una che si mette il cappotto perché è arrivata la stagione fredda. In realtà la corsa agli armamenti, il rafforzamento delle difese militari, è una decisione ben precisa presa dagli Stati. Giusta o sbagliata, motivata o non motivata, non la si può comunque trattare come un evento esterno, ineluttabile. Chiaramente siamo di fronte a scelte di politica internazionale. E non ha senso continuare ad andare avanti su una strada che si è già dimostrata sbagliata, le armi hanno soppiantato la democrazia e non per questo i conflitti sono diminuiti. Anzi sono aumentati. In questo secolo le spese militari su scala globale sono più che raddoppiate, in parallelo sono aumentate le guerre con il loro carico di morti e devastazioni, ed è cresciuta un’insicurezza generalizzata. I fatti hanno la testa dura”.
Parliamo di economia di guerra: convertire le produzioni industriali, investire in armamenti, porterà nuovi posti di lavoro come sperano gli attuali governanti continentali?
“No, lo dimostrano diversi studi che indagano sul rapporto fra riarmo e occupazione. Gli stessi Stati Uniti hanno pubblicato documenti chiari al riguardo. E anche gli studiosi europei sono arrivati alle stesse conclusioni. La Rete Pace e Disarmo insieme a Greenpeace, Sbilanciamoci! e altre associazioni ha collaborato a queste pubblicazioni. Un lavoro attento, che ha dimostrato come massicci investimenti nel settore militare non siano convenienti per i singoli Stati, né dal punto di vista economico né da quello occupazionale. Anche senza tener conto del fatto che più armi vogliono dire più guerre e più distruzioni, perfino sul lato puramente economico non portano vantaggi. Dove non c’è guerra si commercia e si crea ricchezza, dove c’è guerra si distrugge. Ne abbiamo dimostrazioni a iosa, nei secoli precedenti e anche in questo. Denunciamo da anni la residualità di fondo dell’industria militare, dipinta sui media come un colosso che impatta fortemente sull’economia nazionale. In realtà stiamo parlando di un comparto che pesa meno dell’1% del Pil, che conta meno dello 0,5% degli occupati. Non lo diciamo solo noi, l’ha detto un mese e mezzo fa il Governatore della Banca d’Italia, che ha dichiarato esplicitamente: ‘Non ci può essere vantaggio economico o crescita economica dall’investimento in armi’. Ma esistono lobby che alimentano la propaganda secondo cui produrre più armi vuol dire maggiore ricchezza. I favorevoli al riarmo assicurano che ‘non ci sono alternative, bisogna armarsi per forza perché stiamo vivendo una fase politica internazionale drammatica’. No, non è vero. In realtà ci sono sempre strade alternative nelle scelte politiche, così come nella vita. I favorevoli al riarmo dicono anche che ‘non possiamo rinunciare alle ricchezze che arriveranno dall’incremento della produzione industriale legata alla conversione bellica’. Una falsità anche questa”.
Continuare a mobilitarsi in ogni occasione, dalle più piccole alle più grandi, può servire a cambiare l’attuale folle paradigma di una cosiddetta pace imposta con la forza delle armi?
“Assolutamente sì. Per due motivi. Da un lato perché fa percepire anche ai decisori politici che c’è un ‘buco’ di democrazia, i sondaggi sul gradimento o meno del riarmo lo dimostrano chiaramente. Ci viene detto che dobbiamo difenderci, armarci, perché gli altri sono autoritari, brutti, cattivi e non rispettano la volontà popolare, ma l’opinione pubblica, almeno quella italiana, è schierata strutturalmente contro la corsa agli armamenti. Eppure i governi fanno finta di niente e continuano a spendere in armi. Allora fatemi capire: quale democrazia dovrei difendere, se poi su un tema cruciale come questo la volontà popolare non viene rispettata? In questo senso continuare a mobilitarci è essenziale. In secondo luogo, mobilitazioni e manifestazioni, dalle più piccole alle più grandi, sono un grandissimo strumento di diffusione culturale e informativa. Tutto quello che noi diciamo sull’irrilevanza dello strumento militare per la soluzione delle crisi, sullo scarso impatto del ritorno economico, mentre ci sono altre strade che potrebbero garantire più sicurezza e anche una redistribuzione migliore della ricchezza, non viene preso in considerazione. Le nostre osservazioni e le nostre critiche non passano, perché sono pericolose per chi vuole invece mantenere un sistema di guerra e di militarizzazione. Toglierebbero linfa a questa volontà di riarmo. Proprio per questo dobbiamo in ogni occasione rilanciare questi temi. Lo si fa sia grazie a chi scrive e rilancia queste possibili alternative, come fate anche voi, ma anche moltiplicando i luoghi, i momenti in cui i cittadini possono conoscere questi dati, queste informazioni”.
Come invertire questa rotta? C’è sempre il rischio dell’assuefazione, di un senso di impotenza generalizzato che porta all’inazione.
“Le tragedie delle guerre vengono raccontate come si trattasse di un videogioco. Le armi super tecnologiche, le bombe intelligenti, i droni che sparano con precisione chirurgica, ecc, ecc. Una rappresentazione che punta a far credere che in fondo si tratta della normalità. Un’eco lontana, che in fondo non ci riguarda. Si cerca di cancellare la profondità umana di queste autentiche tragedie, ma dietro i numeri ci sono persone, dietro lo schermo televisivo – sembra un videogioco – ci sono uomini e donne in carne e ossa. Si buttano via soldi, in quantità, per alimentare conflitti che aumentano l’instabilità e si ripercuotono sulla nostra vita quotidiana. Se spendi in armi togli risorse alla sanità, al welfare, al lavoro. Bisogna in tutti i modi invertire la rotta, costruire alternative che devono essere concrete e politicamente realizzabili. Ma serve anche un’alternativa ideale, culturale, di pensiero. La sicurezza non può essere solo armata. Se vuoi la pace, prepara la pace”.