Stop alle bombe: Donald Trump ha dipinto l’accordo di pace per Gaza come «un’alba nuova di un nuovo Medio Oriente».
Accordo firmato lunedì 13 ottobre a Sharm el-Sheikh dal presidente americano e da Abdel Fattah Al-Sisi, presidente della Repubblica Araba d’Egitto; Tamim bin Hamad Al-Thani, emiro dello Stato del Qatar; Recep Tayyip Erdogan, presidente della Repubblica di Turchia. Parole altisonanti «per porre fine a più di due anni di profonda sofferenza e perdita, aprendo un nuovo capitolo per la regione caratterizzato da speranza, sicurezza e una visione condivisa di pace e prosperità».
Svolta epocale, messa nero su bianco. Svolta che dalla carta troverà conferma sulla pelle di chi è sopravvissuto? Interrogativo che passiamo a Francesco Vignarca, olgiatese, coordinatore delle Campagne nella Rete Italiana Pace e Disarmo: una delle più autorevoli voci nazionali in tema di risoluzione dei conflitti, proliferazione del commercio delle armi e costruzione di un mondo che davvero si fondi sul rispetto dei diritti e sulla pace tra i popoli.
Accordo di pace, dunque…
«Innanzitutto direi che non si tratta di un accordo di pace ma per il cessate il fuoco – l’incipit di Vignarca – Ben venga che il fuoco cessi, ma ancora non siamo a una composizione di pace e di giustizia».
Proviamo a spiegare questi concetti…
«Vale la pena fissare due elementi. Il primo è rivolto al passato: le responsabilità delle atrocità commesse, da una parte da Hamas e dall’altra da Israele, devono essere per forza affrontate. In tal senso abbiamo esempi come la Commissione per la riconciliazione in Sudafrica o il Processo di Norimberga alla fine della Seconda guerra mondiale. Non si può dare un colpo di spugna, altrimenti il fuoco coverà sotto le macerie…».
Il secondo elemento?
«E’ indispensabile guardare anche verso il futuro. Non può resistere una pace imposta da fuori, ma deve essere agita sia dagli israeliani che dai palestinesi. Anche a questo riguardo possiamo fare riferimento ad alcuni esempi, al valorizzare esperienze che mettano insieme palestinesi e israeliani, come abbiamo fatto in Italia con la marcia per la pace a Marzabotto. Questo serve, per lanciare davvero un percorso di pace e noi, come società civile, l’abbiamo già sperimentato».
Sullo sfondo, il tema della ricostruzione, a Gaza city e nella Striscia: progetto umanitario o business?
«La ricostruzione fisica è impossibile se non parte da un sentire condiviso. Se così non fosse, finirà per non risolvere un problema e crearne di nuovi. Ma questo succede, in piccolo, in qualsiasi paese anche per un semplice Piano di lottizzazione… E’ la comunità, in questo caso palestinese, che deve essere coinvolta per il suo futuro. Pensiamo, ad esempio, a cosa successe a Berlino, alla scelta di conservare e creare spazi della memoria».
Sinceramente, l’accordo reggerà?
«L’accordo è un po’ una via d’uscita sia per Hamas che per Netanyahu. Facciamoci anche un’altra domanda: perché una cosa del genere non è avvenuta un anno e mezzo fa, quando era possibile…».
