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Guerra in Medio Oriente: quello che serve non è schierarsi, ma cambiare paradigma

Una mia intervista per Radio Città Fujiko, a cura di Alessandro Canella

 

Da un lato scene di orrore con rapimenti e uccisioni di popolazione civile israeliana, dall’altro una lunga storia di oppressione, con bombardamenti e stragi, embargo a Gaza, progrom ad opera di coloni, diritti basilari negati in stile apartheid.
È l’oscenità della guerra in Medio Oriente, che improvvisamente risveglia le coscienze anche alle nostre latitudini. Ma, invece che spingere alla riflessione sul fallimento di modelli come deterrenza armata e sicurezza basata sulla forza, ancora una volta l’Occidente sceglie di schierarsi in un tifo come se ci trovassimo in una partita di calcio.

Lo ha fatto il governo italiano, lo ha fatto anche la Commissione europea, che con dichiarazioni e gesti simbolici come la proiezione della bandiera israeliana sulle facciate di palazzi istituzionali, decidono di azzerare completamente la complessità della situazione, di prendere in considerazione solo una parte della storia, rivendicando implicitamente l’impostazione delle relazioni internazionali.
Con la politica, anche molti cittadini cedono alla spirale della tifoseria, come se schierarsi da una parte o dall’altra potesse risolvere qualcosa.

In questa deriva, tuttavia, c’è chi rompe lo schema e immagina un cambio di paradigma, anche a costo di conquistarsi le critiche del pensiero allineato, come avvenuto per la guerra in Ucraina, che lo ha accusato di simpatizzare per il nemico.
È il pacifismo nonviolento che ripudia la guerra da ogni prospettiva. Al momento la sua posizione sembra rappresentare l’unica alternativa mai battuta per la risoluzione del conflitto.
Per questa ragione abbiamo intervistato Francesco Vignarca, portavoce della Rete Italiana Pace e Disarmo.

Guerra in Medio Oriente: le inutili tifoserie vs il cambio di paradigma

Vignarca, come dobbiamo leggere quanto sta accadendo in Medio Oriente?

«L’abbiamo ripetuto mille volte, le armi e la militarizzione non possono portare la pace. Israele è uno dei paesi più militarizzati al mondo, e ha impostato, soprattutto negli ultimi anni con la politica di Netanyahu, una propria esistenza e sicurezza in pace, supposta, con il fatto di poter militarizzare la questione palestinese.
Bisogna cambiare paradigma: la vera sicurezza la dà una politica che significa diritti per tutti, che crea un contesto nel quale tutti si sentono sicuri perchè hanno una prospettiva, un qualcosa davanti. Gli abitanti di Gaza vivono in una prigione a cielo aperto da decenni; che tipo di prospettiva di vita puoi avere così? Purtroppo diventa più facile cadere nelle grinfie di chi crede che la violenza sia uno strumento di risoluzione dei problemi, o uno strumento di potere.
Noi continuamo a dire che solo approcci non violenti di pacificazione possono portare, appunto, alla pace. Lo diciamo per l’Ucraina, lo diciamo per la Palestina come per qualsiasi altro caso».

In queste ore è capitato di leggere la massima latina “se vuoi la pace prepara la guerra”. Voi la contestate immagino.

«Sì, assolutamente. Io continuo a ripetere, in tutte le conferenze che faccio, che per fortuna non seguiamo più cosa dicevano gli antichi latini perchè sennò faremmo delle cose inaccettabili per il nostro senso del diritto e della dignità umana.
Eppure, in casi come questo c’è una banalizzazione della guerra come concetto, rappresentata in un’ottica binaria di bianco e nero. La guerra è raccontata in modo manicheo, in primis dai politici, andando contro alla natura del loro mestiere, ossia l’arte di comprendere e spiegare la complessità. La politica si riduce al mero schieramento da bar, dimostrando di non avere il coraggio di prendere posizioni complesse, talvolta anche impopolari.
Ci tengo a ricordare due cose importanti per capire la situazione palestinese: primo, mentre molte persone soffrono, in Palestina e Israele come in altri luoghi, ci sono persone che traggono la propria ricchezza e il proprio potere da contesti del genere: sono i costruttori e i produttori di armi. Io rigetto l’assioma, popolare negli ultimi mesi, secondo cui le armi siano uno strumento per la libertà. E se così fosse, se sono un bene tanto necessario, cosa a cui non credo, perché non le produce lo Stato?
E poi un altro aspetto, quello semantico. Molti di coloro che si schierano a favore di Israele continuano a sottolineare il carattere terroristico di Hamas. Perchè? Perché si cerca di tracciare una differenza fra gli attacchi di un gruppo terroristico, che in quanto tali sarebbero deprecabili, e le operazioni militari di uno Stato, che invece godrebbero di una dignità diversa. Da inizio anno le forze israeliane hanno ucciso oltre 230 civili, di cui 40 bambini. Riecheggia quanto dice Putin nel giustificare operazioni violente in virtù di una presunta sicurezza. Noi condanniamo qualunque atto di violenza: qualsiasi atto che uccide persone è un atto criminale. La guerra è di per sè un crimine, che sia Hamas o uno Stato».

Hai citato Putin, continuiamo nel parallelo. All’inizio dell’invasione russa, quando il pacifismo sosteneva che inviare armi non significasse cercare la pace, è stato evocato il diritto alla difesa armata contro un’occupazione. Qui sembra si usino pesi diversi però.

«Chiaramente. Questo dimostra come la scelta della difesa violenta non sia una scelta di giustizia. Una pace giusta significa andare a ragionare sulle situazioni e sanarle, sanare le ingiustizie che stanno dietro le violenze, che se non le giustificano di certo aiutano a capirne i motivi. Chi ha scelto la violenza come unica possibilità è ovvio che non sia coerente, perché, come dici tu, da una parte si invoca l’aggressore e l’aggredito come categorie ultime per distinguere tra buoni e cattivi, mentre dall’altra, questo stesso ragionamento non viene applicato. La scelta violenta non fa altro che perpetuare l’ingiustizia, come dimostra il caso fra Israele e Palestina. Solo un salto in un’altra dimensione, quella della non violenza, può permettere una risoluzione. Citando Gandhi, occhio per occhio rende il mondo cieco.
Noi crediamo che la soluzione possa essere rafforzare, legittimare quelle parti, sia dentro Israele che la Palestina, che hanno capito da tempo come questa violenza non possa portare a niente se non alla distruzione di una delle forze in campo. Bisogna dare forza a quelle realtà che spingono per una convivenza pacifica, l’unica vera scelta possibile per la pace, scelta che la comunità internazionale dovrebbe fare».