home Parole e notizie In comune non c’è l’esercito, ma il destino bellico

In comune non c’è l’esercito, ma il destino bellico

WARFARE Più che per la rilevanza del programma Edip (valore iniziale 1,5 miliardi di euro, con l’intenzione di aumentarli) è la traiettoria di militarizzazione che dovrebbe spingere tutti a porsi qualche domanda scomoda: quale tipo di difesa dell’Unione ha in mente la Commissione? Un mio commento – con analisi – per il Manifesto

L’approvazione da parte del parlamento europeo del programma European defence industry programme (Edip) secondo i suoi fautori è un «momento storico» per la «sovranità europea» e un balzo in avanti verso un’Europa in grado di difendersi da sola. Ma se si guardano da più vicino i contenuti del programma (che attende l’approvazione finale degli Stati membri) ci vede che è solo l’ennesimo passo verso una militarizzazione dell’Ue e un altro favore all’industria delle armi. Il che non ha nulla di storico ma purtroppo è pura continuità.

Il comunicato dell’europarlamento parla di un meccanismo «più efficiente, più veloce e genuinamente europeo nel procurement della difesa». Velocità ed efficienza diventano segnali inquietanti se si considera che la funzione della difesa, in un contesto democratico, dovrebbe essere bilanciata da trasparenza, controllo parlamentare e finalità chiare di prevenzione dei conflitti, oltre che dall’allineamento a una politica estera, che non esiste come non esiste tutto il resto. Nemmeno per l’Edip ci saranno i controlli che il parlamento europeo mantiene invece su fondi e investimenti civili: come già per l’Edf, c’è stata una rinuncia ai poteri di supervisione e indirizzo, e implementazione (resta una debole valutazione di budget ex post). In un contesto dove la produzione bellica diventa strutturale, sarebbe invece urgente che la sovranità democratica non venisse sostituita dal potere delle industrie e delle lobby.

Più che per la rilevanza del programma Edip (valore iniziale 1,5 miliardi di euro, con l’intenzione di aumentarli) è la traiettoria di militarizzazione che dovrebbe spingere tutti a porsi qualche domanda scomoda: quale tipo di difesa dell’Unione ha in mente la Commissione? Per quale fine e con quali soggetti? Ma soprattutto: a vantaggio di chi? Di sicuro non si tratta di passi verso la pace.

Ma nemmeno verso un rafforzamento della capacità di azione militare europea: lo si è già visto con gli altri fondi di sostegno industriale che prescrivono soglie di cooperazione molto bassa (per l’Edip sarà almeno il 65% di produzione europea) incapaci di garantire quella convergenza produttiva e progettuale che si voleva ottenere. Perché i nodi politici non si possono sciogliere per via tecnica: l’industria militare segue denaro e profitto non certo prospettive di sicurezza.

Lo European network against arms trade (di cui fa parte Rete pace disarmo) ha evidenziato i pericoli di questo nuovo programma. Il primo è di prospettiva: pur non avendo come obiettivo esclusivo le esportazioni di armi, stabilisce che la competitività dell’industria della difesa europea e ucraina (completamente integrata nel provvedimento, altro elementi di preoccupazione) «deve essere preservata». Il tutto senza far riferimento ai criteri dell’Arms trade treaty o della Posizione comune Ue sull’export di armi, benché questi siano strumenti chiave per monitorare il commercio di armi e i rischi umanitari. In pratica si favorisce l’espansione dell’industria militare anche nei suoi affari internazionali, mentre il sostegno all’industria militare ucraina nel contesto della guerra in corso potrebbe consentire test sul campo senza garanzie di rispetto delle norme comuni europee.

Nel testo dell’Edip inoltre sono ipotizzate «esenzioni nazionali e dell’Unione che se ritenute utili agevolerebbero l’ampliamento delle capacità di produzione» anche per quanto riguarda norme ambientali e di salute e sicurezza. Insomma, la mobilitazione industriale per fini bellici può comportare la sospensione o l’erosione di regole che tutelano ambiente, lavoro, diritti dei cittadini.

L’Edip è presentato come un passo necessario di autonomia strategica europea, e sul piano tecnico-burocratico lo è: capacità di produzione, approvvigionamento, uso del mercato interno della difesa. Ma è proprio lì che si annida il problema: questa autonomia rischia di tradursi in autonomia industriale bellica, non in autonomia di politica estera, di pacificazione, di sicurezza condivisa.

Invece di ridurre le dipendenze militari, si rafforzano le industrie delle armi, senza trasparenza sulle esportazioni. Invece di indirizzarsi verso modelli di sicurezza che investono su salute, cambiamento climatico, dialogo internazionale, all’orizzonte dell’Europa ci sono solo i preparativi per la guerra.