home Parole e notizie “Penalizzata la ricerca gli F35 non convengono”

“Penalizzata la ricerca gli F35 non convengono”

intervistaREPQuello che esce dalla porta, la Difesa italiana lo recupera dalla finestra”. È un pacifista Francesco Vignarca, 41 anni, coordinatore della Rete italiana per il disarmo. Ma è un pacifista con i numeri alla mano. Quelli che ha messi nero su bianco nei suoi saggi sull’economia militare “Armi, un affare di Stato” e “F-35 l’aereo più pazzo del mondo”. E quelli che ha usato per analizzare l’ultima legge di stabilità: “La riduzione della spesa militare è sotto l’uno per cento. E ancora non sappiamo quanto spenderemo per gli F35”.

Il ministero della Difesa è il più colpito dai tagli: 504 milioni di euro, il 2,5 per cento del suo budget.

“Non bisogna guardare solo ai fondi per la Difesa. Le spese per le missioni internazionali, già assicurate per l’anno, restano costanti, quelle per l’acquisto di armamenti, a bilancio del Ministero per lo sviluppo economico ma nella disponibilità della Difesa, salgono di 200 milioni. Nel complesso la riduzione è inferiore al punto percentuale”.

Pur sempre un taglio, che si somma a quelle degli scorsi anni. Il nostro esercito può sopportarlo?
“La spesa della Difesa italiana è del tutto sbilanciata. Da manuale dovrebbe andare per il 50 per cento in personale, per il 25 nella gestione operativa e per un altro 25 nell’acquisto di armi. La nostra è assorbita per tre quarti dagli stipendi. Si è sacrificato l’addestramento, che ormai dipende in buona parte dai fondi delle missioni internazionali”.

Gli effettivi sono scesi da 190 a 174mila unità e saranno ancora ridotti a 150mila. 

“Ma la riduzione è spalmata su un periodo molto lungo di tempo (al 2024, ndr). Con un effetto minimo, perché a essere tagliate sono le fasce più basse: in termini di stipendi i 22mila ufficiali pesano quanto l’intera truppa”.

Gli investimenti militari non sono, da internet in giù, un volano di innovazione?
“Ma l’Italia non sta investendo in ricerca e sviluppo, come fanno per esempio Stati Uniti e Israele. Prendiamo gli F35: le nostre aziende lavorano di fatto come tornitori e la realizzazione finale non dà benefici tecnologici. Si guadagna di più progettando l’Eurofighter che producendo l’F35”.

Intanto però a Cameri, dove si producono gli aerei, lavorano 800 persone. E altre ne arriveranno per la manutenzione di tutti i velivoli europei. 

“Una ricaduta c’è. Bisogna solo capire se i 3 miliardi e mezzo che abbiamo speso finora per il programma F35 non avrebbero potuto generare un indotto maggiore altrove. Diversi studi mostrano che il ritorno sugli investimenti nel settore militare è molto più basso rispetto a quelli in istruzione o energie alternative”.

A proposito di F35, quanti ne abbiamo acquistati? 

“Abbiamo completato l’acquisto di sei velivoli e iniziato quello di altri due, in barba alla moratoria votata in Parlamento”.

La Difesa nega, dice che si è fermata a sei. 

“È mesi che chiediamo di vedere i contratti, senza successo. Allora non resta che rifarsi ai documenti della Difesa Usa, che danno per avviato anche l’acquisto del settimo e dell’ottavo velivolo. La Stabilità intanto ha confermato per il 2015 il budget di spesa in armamenti, ma senza specificare per quali acquisti. Si saprà solo a marzo, non il massimo della trasparenza”.

La nostra industria militare vale tre miliardi di euro ogni anno. Un’eccellenza da difendere?
“Vero, siamo il primo esportatore mondiale di armi leggere, tra i leader nell’IT, nell’avionica e nell’elicotteristica. Ma le stesse tecnologie si prestano anche a produzioni civili. Senza contare che dal 2000 al 2013 il fatturato del settore è cresciuto del 30 per cento, ma l’occupazione scesa del 25”.

Brasile, India, Arabia Saudita, Cina e Giappone stanno tutte aumentando le spese militari, una bella opportunità di crescita.
“Non si possono trattare le armi come se fossero scarpe. Se le vendiamo all’Arabia o alla Libia, poi non lamentiamoci quando finiscono nelle mani dell’Isis. C’è bisogno di più regole sull’export”.

Il mondo si riarma, l’Europa taglia. Così non ci condanniamo a essere meno influenti?
“L’Europa ha una grossa capacità di influenza, perché quelle armi è spesso lei a venderle. Per questo ci vorrebbero più regole. L’altro punto è creare una vera politica di difesa comune. Oggi abbiamo 28 eserciti, con 28 stati maggiori e 28 reti logistiche. Alcune stime dicono che un esercito comunitario ci farebbe risparmiare 100 miliardi di dollari l’anno, con una forza di mobilitazione paragonabile a quella americana”.

 

Articolo di Filippo Santelli per RSera del 4 marzo 2015

Tutta l’intervista in PDF