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Vent’anni d’oro per i produttori d’armi

Mia intervista per Collettiva, a cura di Carlo Ruggiero

“La guerra al terrore ha fornito agli Stati di tutto il mondo e alle lobby il pretesto per dedicare sempre più risorse a truppe e armamenti. Dal 2001 la spesa militare globale è raddoppiata e le 5 maggiori aziende americane hanno oggi fatturati da capogiro”

Dopo 20 di presenza costante, la missione militare in Afghanistan è fallita miseramente con il ritorno dei Talebani a Kabul, quasi senza colpo ferire. Eppure c’è qualcuno per cui questa esperienza ventennale è stata un successo senza precedenti: il complesso militare-industriale americano e dei suoi alleati. Ne abbiamo parlato con Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Pace e disarmo e fondatore dell’osservatorio Mil€x.

La caduta di Kabul pone fine a un lungo periodo durante il quale numerose aziende occidentali hanno collaborato con gli eserciti presenti in Afghanistan, ovviamente con profitto. Chi ci ha guadagnato, e quanto?

Innanzitutto hanno guadagnato le aziende produttrici di armamenti. L’intervento in Afghanistan, infatti, è stato il primo di una serie di risposte che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno dato a seguito dell’attentato dell’11 settembre 2001. L’idea che bisogna andare in giro per il mondo ad esportare la democrazia è nata allora, e ha fatto sì che dopo l’Afghanistan ci sia stato l’Iraq e poi altre zone del Medio Oriente, l’Africa, il Sahel, per non parlare del Pacifico del sud e del Sudest asiatico. Questa politica, insomma, ha cambiato radicalmente la situazione per quanto riguarda la produzione e il commercio di armamenti, ed è alla base della crescita poderosa e inarrestabile delle spese militari mondiali negli ultimi venti anni. La ‘guerra al terrorismo’, ha fornito agli Stati di tutto il mondo e alle lobby transnazionali degli armamenti il pretesto per dedicare sempre più risorse a truppe e armi. Un primo dato si può ricavare dall’andamento in borsa. Secondo un’analisi condotta da The Intercept, l’acquisto di 10mila dollari in azioni dei principali fornitori militari del governo Usa (Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics) effettuato nel settembre 2001 varrebbe oggi, con utili reinvestiti, oltre 97mila dollari. Un rendimento dell’872%, ben superiore a quello realizzato nello stesso periodo dalle aziende del listino Standard & Poor’s 500 che si ferma al 516%.

Questo perché, dal 2001 ad oggi, chi produce armamenti ha avuto la certezza che sarebbero stati acquistati dato che erano in corso operazioni militari di lungo periodo.

Sì, il cuore del successo economico dei produttori di sistemi militari risiede nel ‘fatturato sicuro’ e nella conseguente capacità di garantire dividendi sempre più alti. Gli 83 miliardi di dollari investiti nelle forze afghane, per esempio, sono quasi il doppio del budget annuale per l’intero corpo dei marines e superano i fondi stanziati l’anno scorso per l’assistenza in buoni pasto a circa 40 milioni di americani. La Lockheed Martin garantiva un dividendo di 0,44 dollari ad azione nel 2001, mentre l’anno scorso ne ha distribuiti 9,80. Raytheon è passata da 56 centesimi all’anno a oltre due dollari, mentre Northrop Grumman da 72 centesimi a ben 5,67 dollari all’anno per azione. Tutto questo proprio grazie al ‘fatturato sicuro’ garantito dal conflitto in Afghanistan e da quelli che sono venuti dopo.

Non è un caso, quindi, se la spesa militare mondiale sia in costante aumento?

Non lo è. Lo testimoniano i dati del Sipri di Stoccolma, che evidenziano l’enorme crescita delle spese militari, quasi raddoppiata tra il 2001 e il 2020 (da 1.044 a 1.960 miliardi di dollari a valori costanti comparabili), dopo il crollo degli anni ’90 con la fine della guerra fredda. Il trend è anche in aumento, ed è destinato a rafforzarsi. Queste spese hanno garantito, nei vent’anni passati, risorse e contratti facili ai produttori di armamenti. Il fatturato militare delle prime quindici aziende del settore registra un aumento complessivo del 30% tra il 2002 e il 2018 (ultimo dato disponibile): da 199 a 256 miliardi di dollari. In questo senso anche le aziende non statunitensi sono riuscite a seguire la scia, aumentando di molto i propri ricavi armati: la britannica Bae Systems è passata da 18,2 a 21,2 miliardi di dollari, l’italiana Leonardo è passata da 6 a 9,8 miliardi di dollari.

C’è anche un indotto non militare?

Sì, il conflitto afghano ha permesso in sostanza di sdoganare anche l’utilizzo delle compagnie private non solo di natura militare, ma anche con funzioni logistiche e di ricostruzione. Il tutto in un sistema impostato in modo da permettere ai cosiddetti contractors di approfittare a piacimento del Pentagono, che spesso firmava i cosiddetti accordi ‘costo zero’: qualunque fosse l’ammontare per un progetto presentato, il governo Usa avrebbe pagato. E’ chiaro che hanno lucrato in maniera enorme. E non è un caso se in Afghanistan sono morti più dipendenti di queste compagnie che soldati americani.