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La guerra fa bene all’economia?

Un resoconto di quanto detto a Trento durante il convegno “Economie di Pace” promosso dal Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani

di Novella Benedetti – articolo originale qui

 

Ad oggi la retorica dell’economia di guerra ha prevalso: basti pensare a quante volte abbiamo sentito dire che questo settore è indispensabile per generare posti di lavoro e creare ricchezza. Eppure gli studi al riguardo ci mostrano esattamente il contrario – come ha affermato Raul Caruso, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ed autore del libro “Economia della pace” (ed. Il Mulino) durante l’incontro “Economie di pace – tra scenari globali e scelte quotidiane” organizzato dal Forum trentino per la pace e i diritti umani con il patrocinio morale della regione Trentino Alto Adige. Si partiva da tre domande: quanto spendiamo per gli armamenti; è possibile pensare ad una reale economia di pace; cosa posso fare io nelle mie scelte quotidiane per favorirla. Oltre a Raul Caruso a rispondere anche Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo e collaboratore di Emergency; e Nicoletta Dentico, giornalista, ex direttrice di Medici Senza Frontiere in Italia e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Ad aprire le danze Violetta Plotegher, vice presidente del Forum trentino per la pace e i diritti umani e Assessora alla previdenza e all’ordinamento delle APSP presso la Giunta regionale; ed a chiuderle Massimiliano Pilati, presidente del Forum e membro del direttivo nazionale del Movimento Non violento.

“In tutti gli studi che sono stati portati avanti – afferma Caruso – appare chiaro il collegamento tra economia di guerra e violazione dei diritti umani all’interno di un paese. La Germania nazista aveva portato l’economia di guerra alla sua massima espressione, riducendosi allo sfascio economico. Non produceva più niente a parte le armi; ed anche per questo i soldati avevano il permesso di razziare tutto quello che trovavano sul loro cammino. Ne consegue che optare per un’economia di pace non è solo o tanto una scelta valoriale, quanto una decisione oculata. Nell’economia di pace si investe sulle risorse, e questo produce dei risultati che non sono neutrali ai valori monetari. In un’epoca in cui tutto scorre veloce – abbiamo le rilevazioni sul PIL ogni tre mesi, che non servono a niente – l’economia della pace recupera il valore del tempo e guarda al lungo periodo. L’unico modo per generare una crescita. E qui è necessario continuare con studi che si scollegano dall’emotività etica per concentrarsi sugli aspetti scientifici in modo da decostruire la credenza dell’economia di guerra come generatrice di ricchezza. Nel mio libro presento varie ragioni – provate scientificamente – sul perché la guerra non conviene a livello economico. Ve ne citerò due: in primo luogo le spese militari rovinano il motore più importante dello sviluppo economico, ovvero il capitale umano. Per anni, “fare il militare” era un sostituto al mondo della scuola. Per imparare si andava all’università o si faceva il militare. Ma non funziona così: l’educazione è l’unico motore di sviluppo possibile, ed è stato dimostrato. Solo con l’educazione riusciamo ad avere innovazione – una delle grandi parole chiave della nostra epoca – e solo con l’innovazione riusciamo ad avere una crescita. Il secondo elemento è il fatto che la conoscenza soddisfa sì dei nuovi bisogni, ma solo se lo fa nell’immediato. I militari ritardano l’innovazione, creando problemi. Questo per un motivo molto semplice: mentre chi sperimenta è guidato dal desiderio di creare qualcosa che serva subito, non necessariamente avviene lo stesso in ambito militare dove prima mi invento qualcosa e solo poi aspetto e vedo se si presenta la situazione per cui quella cosa mi può servire. Negli Stati Uniti ci sono tantissimi brevetti di natura civile bloccati dal Pentagono perché potrebbero avere un qualche utilizzo a livello militare”.

Nonostante queste evidenze dal mondo accademico, che l’Italia continui a spendere (e non ad investire!) nella difesa non è un segreto per nessuno: ad aprile il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) aveva pubblicato gli ultimi dati, che mostrano una crescita del 10% tra il 2015 ed il 2016. In tutto il mondo lo scorso anno la spesa militare si è attestata sui 1.686 miliardi di dollari, con un incremento in termini reali dello 0,4%. Le spese militari sono diminuite nei paesi produttori di petrolio ma aumentate in Nordamerica, Cina, ed Europa occidentale. Ed è quest’ultima realtà ad interessarci più da vicino: la maggior crescita europea è stata registrata proprio in Italia. Un trend quanto meno preoccupante: in tutto il mondo i governi insistono per aumentare la spesa militare – sfruttando anche la propaganda del terrore che viviamo (o subiamo) in questo periodo. Ma cosa vogliono i cittadini? La Campagna mondiale sulla spesa militare (GCOMS) e la Rete Disarmo chiedono di spostare i fondi su utilizzi più utili a livello sociale. I conflitti ci saranno sempre e ne siamo consapevoli: la domanda da porre è come li vogliamo gestire.

“In questo senso la risposta che vediamo è un po’ come prendere le medicine per la varicella, quando magari sono ammalato di morbillo. È chiaro che così non guarirò mai. C’è un problema? Sì. Sto facendo qualcosa? Certo, ma sto facendo la cosa sbagliata” – afferma Vignarca, che prosegue: “Vi faccio un esempio molto concreto: se a mia figlia, in un anno, le faccio studiare per 200 ore violino e 5 ore informatica, che risultato avrò? Probabilmente che mia figlia suonerà benissimo il violino, ma di informatica non saprà granché. Ecco, è quello che succede con l’economia di guerra: finché investiamo il corrispettivo delle 200 ore di violino in questo ambito, e solo 5 nell’economia di pace – ovvero l’informatica, è chiaro che non avremo altre soluzioni da proporre ai conflitti attuali. Se tutto un sistema va in una direzione, anche il singolo seguirà quella direzione”. Secondo i dati di Mil€x-Osservatorio sulle spese militari in Italia, basterebbe il 10% di questi stanziamenti per raggiungere facilmente i principali obiettivi del millennio delle Nazioni Unite. A questo si unisce Nicoletta Dentico: “questi calcoli sono importanti, impotantissimi. Ma dobbiamo essere consapevoli che fino a quando continuiamo a ragionare in un’ottica di stanziamento di risorse economiche non stiamo andando alla radice del problema, continuiamo ad essere inseriti dentro il sistema. Invece oggi più che mai è necessario lavorare per cambiare le regole del gioco. Perchè alla fine la spesa militare non è altro che l’ultimo corredo che assicura l’attivazione delle regole del gioco del mondo della finanza e dell’economia. In questo contesto la disuguaglianza è patologica. Secondo il Wealth Report – il report sulla ricchezza stilato da banche, non da associazioni – il 91,6% della popolazione mondiale detiene il 17% della ricchezza complessiva; lo 0,7% invece, ne detiene il 41%. Se non è una dichiarazione di guerra questa, non so cosa lo sia”. Per lavorare sulle regole del gioco la proposta è l’azionariato critico: nato da un gruppo di suore negli Stati Uniti 40 anni fa, sta prendendo vigore. Si tratta di gruppi di investitori che, detenendo parte delle quote dell’azienda possono influenzarne le decisioni. In Italia nasce una decina di anni fa e si consolida con le azioni della Fondazione Culturale Responsabilità Etica (FCRE) insieme ad alcune associazioni, tra le quali ricordiamo Re:Common, Amnesty International Italia, Greenpeace, Global Witness. Nel 2016 la FCRE ha partecipato a tre assemblee generali, chiedendo risposte su temi di sfruttamento e diritti umani: Finmeccanica (settore armi), Eni (settore Oil&GAs), Enel.